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Importance: 4 - Normal

Lettere dal Carcere Damiano Aliprandi 18 May 2022 14:00 CEST

L’Oms: «Bisogna ridurre le malattie non trasmissibili»

La salute dei detenuti è più fragile rispetto agli altri. Dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità emerge che queste patologie sono tra le maggiori minacce e le politiche per ridurle sono insufficienti
Oms malattie non trasmittibili

In uno studio di 76 pagine, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha illustrato come affrontare il carico di malattie non trasmissibili nelle carceri nella regione europea. Si apprende che circa 30 milioni di persone, la maggior parte delle quali soffre di molteplici svantaggi, si muovono ogni anno a livello globale tra le carceri e le comunità. Il continuo flusso di persone tra la comunità e le strutture penitenziarie rende quest’ultime un punto focale della salute pubblica, poiché gli investimenti effettuati nei servizi sanitari carcerari riducono l’onere per l’assistenza sanitaria della comunità e alla fine contribuiscono a società più sane. Secondo l’Oms, affrontare le disuguaglianze sanitarie nelle carceri è fondamentale.

SONO QUATTRO I MAGGIORI FATTORI DI RISCHIO DI QUESTE MALATTIE

Le malattie non trasmissibili causano il 71% dei decessi a livello globale e rappresentano una sfida per i sistemi sanitari. Sono 4 i fattori di rischio di queste malattie più significativi nei luoghi di detenzione: uso di tabacco e alcol, bassi livelli di attività fisica e diete squilibrate. A ciò si aggiunge l’inquinamento ambientale e i fattori sanitari sistemici come cause di preoccupazione. Tuttavia – secondo lo studio dell’Oms, queste malattie sono scarsamente riconosciute come un problema sanitario importante nelle carceri, dove l’obiettivo principale è stato tradizionalmente la prevenzione delle malattie infettive e degli infortuni. Denuncia che ci sono scarse ricerche sulle malattie non trasmissibili nelle carceri o dati solidi dalle carceri. Il sotto-investimento nelle malattie non trasmissibili osservato nella società in generale è amplificato nelle strutture carcerarie, dove le malattie non trasmissibili non sono ancora considerate una priorità.

Il programma di lavoro europeo dell’Oms definisce una visione per supportare meglio i paesi nel raggiungimento della copertura sanitaria universale. Uno dei suoi fiori all’occhiello è la salute mentale, una componente importante della salute carceraria. Gli attuali sistemi informativi nella Regione Europea, tuttavia, non raggiungono in modo inadeguato l’intero mandato dell’erogazione dei servizi e dei risultati sanitari. Anche le informazioni sui fattori di rischio comportamentali acquisiti nelle cartelle cliniche delle carceri sono scarse. I dati precedenti del database europeo Health in Prisons suggerivano che solo il 2% degli Stati membri della regione disponeva di dati sulla percentuale di persone in sovrappeso in carcere e solo il 15% poteva indicare la prevalenza dell’ipertensione, entrambi fattori di rischio per le malattie non trasmissibili. Questo è il motivo per cui l’Oms ritiene che sia una priorità per i sistemi sanitari carcerari concentrarsi sulla piena attuazione delle cartelle cliniche penitenziarie. I sistemi informativi devono acquisire dati di alta qualità sui fattori di rischio delle malattie non trasmissibili in modo che possano essere adottate politiche basate sull’evidenza.

L’OMS PROPONE INTERVENTI PER RIDURRE IL CARICO DI QUESTE PATOLOGIE IN CARCERE

Il rapporto dell’Oms riassume le prove esistenti e presenta politiche e interventi per ridurre il carico di malattie non trasmissibili nelle carceri, fornendo esempi di buone pratiche in tutto il mondo. Sebbene non siano esaustivi, questi esempi offrono soluzioni pratiche semplici e ben progettate per aumentare l’attività fisica, migliorare la qualità nutrizionale, ridurre l’ uso di alcol e tabacco, controllare il diabete e l’obesità, ridurre la pressione alta e miglioramento degli interventi ambientali. Il rapporto dell’Oms riassume i dati di una recente ricerca sulle disuguaglianze delle malattie non trasmissibili nelle persone che vivono in carcere.

Quali sono? L’Oms indica alcuni fattori principali. La prevalenza di malattie cardiovascolari nelle persone di età superiore ai 50 anni che vivono nelle carceri in Europa è oltre 3 volte superiore a quella della popolazione generale. Le probabilità di avere una patologia respiratoria, tra cui l’asma e la broncopneumopatia cronica ostruttiva, sono da 3 a 6 volte più alte tra le persone in carcere rispetto alle comunità esterne. Rispetto alla popolazione generale, i detenuti hanno tassi di malattie psicotiche e depressione maggiore da 2 a 4 volte superiori e tassi di disturbo antisociale di personalità 10 volte superiori.

RISCHIO MAGGIORE IN CASO DI CONTAGIO CON IL SARS COV- 2

Inoltre, i dati provenienti dal Canada e dagli Stati Uniti d’America mostrano che alle persone detenute viene diagnosticato il cancro al collo dell’utero a tassi 4- 5 volte superiori e che il rischio di morire di cancro è 1,4- 1,6 volte più alto rispetto alle persone nelle comunità esterne. Le malattie non trasmissibili esistenti pongono le persone infettate con il Sars- CoV- 2 a un rischio più elevato di Covid grave o di morte. D’altronde, questo lo abbiamo visto in Italia. Nel periodo emergenziale, alcuni detenuti con malattie pregresse sono stati mandanti in detenzione domiciliare. Ci furono polemiche, perché diversi di loro erano reclusi per mafia. A seguito dell’indignazione, alcuni di loro furono rispediti dentro. Hanno contratto il covid e sono morti.

L’Oms sottolinea che una popolazione carceraria in aumento e che invecchia presenta ulteriori sfide a una popolazione che già sperimenta peggiori risultati di salute. Nel 2018 c’erano più di 11 milioni di persone che vivevano in carcere nel mondo, con un aumento dell’ 8% dal 2010. Una revisione sistematica incentrata sui dati epidemiologici delle persone in carcere ha evidenziato che gli anziani avevano tassi più elevati di diabete, cancro, malattie cardiovascolari e malattie del fegato. Vale la pena notare che, mentre nei paesi industrializzati e nella regione europea dell’Oms le persone di età pari o superiore a 65 anni sono convenzionalmente indicate come ‘ anziani’, è stato dimostrato che, per la popolazione carceraria, questa definizione vale dai 50 anni in su.

L’OBIETTIVO DELL’OMS È QUELLO DI MIGLIORARE LA SALUTE DEI DETENUTI

Quando le persone finiscono di scontare la pena, la loro salute risulta peggiore rispetto a coloro che non sono mai state incarcerate, perché hanno meno risorse economiche, livelli di stress più elevati, priorità contrastanti e scarso accesso alle cure. Poiché la popolazione carceraria sta crescendo e cambiando, è più probabile che un numero crescente di persone anziane soffra di malattie non trasmissibili. È stato anche riferito che l’invecchiamento di per sé, che si verifica a livello globale, gioca un ruolo nel profilo di età della popolazione carceraria e, di conseguenza, nella prevalenza della malattia.

L’obiettivo che l’Oms indica è quello di migliorare la salute delle persone che vivono in carcere e in altri luoghi di detenzione e raggiungere soprattutto l’obiettivo di sviluppo sostenibile: garantire una vita sana e promuovere il benessere per tutti a tutte le età, e ridurre disuguaglianza all’interno e tra i paesi. Per raggiungere tali obiettivi, è fondamentale affrontare le principali cause di morte prematura. Le malattie non trasmissibili rappresentano la maggior parte delle morti premature nel mondo, comprese le carceri. L’Oms conclude nel suo rapporto che tutti gli sforzi devono quindi essere incentrati sulla trasformazione delle carceri in ambienti che promuovono la salute in cui vi sia l’opportunità di impegnarsi nella prevenzione delle malattie non trasmissibili. La diagnosi precoce di queste malattie migliora la prognosi e quindi massimizza le possibilità di successo di qualsiasi intervento. Molte persone incarcerate provengono da comunità in cui ci sono barriere significative che bloccano l’accesso alle cure. Secondo l’Oms la reclusione può essere addirittura una sfida per ridurre le disuguaglianze poiché i governi, di fatto, hanno il dovere di prendersi cura delle persone private della libertà.

Oms malattie non trasmittibili
Il Libro 17 May 2022 18:30 CEST

E Moretti disse: «Se lo Stato avesse ceduto noi avremmo vinto. I Servizi? Idiozie»

La testimonianza dal libro: “Brigate rosse. Una storia italiana”, di Mario Moretti, Carla Mosca  Rossana Rossanda.
Aldo Moro

Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro: “Brigate rosse. Una storia italiana”. Di Mario Moretti, Carla Mosca  Rossana Rossanda.

Perché non prendeste in esame la possibilità di liberare unilateralmente Moro? Avrebbe rotto con la Dc, avrebbe messo in difficoltà il Pci.

Se si trattava di incrinare la scena politica, questo l’avrebbe modificata. Non si può giudicare col senno di vent’anni dopo. Nel 1978 la Dc era compatta sulle posizioni di Andreotti-Berlinguer, la spaccatura era fra Moro e tutti gli altri. Quanto sarebbe durata? Oggi sappiamo che i suoi amici al governo stavano occupandosi di come neutralizzarlo, farlo passare per matto. Avevano preso le loro brave precauzioni per ricondurre la pecorella all’ovile.

Adesso sei tu a paventare una sindrome di Stoccolma… Il Moro che ci hai descritto si sarebbe ribellato a farsi trattare con psicofarmaci. E non sarebbe rientrato docilmente all’ovile.

Se si fosse aperto un varco e l’avessimo liberato, come abbiamo fatto con altri, Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e la Dc non sarebbe stata demolita affatto.

Forse, se si fosse creato il varco nel fronte della fermezza. Ma stiamo prospettando l’ipotesi che lo liberaste unilateralmente, mentre tutta la scena politica gli aveva detto “no”. Fra l’altro nei movimenti c’era stata una simpatia al momento del sequestro, sembraste figure vendicatrici, i nuovi Robin Hood. Ma quando si parlò di esecuzione, tutti vi chiesero di fermarvi e lasciarlo libero.

Ah sì, è vero, verissimo. Quelli che hanno libertà di esprimersi dicono proprio questo. Immaginavano che si trattasse d’una partita, più o meno sportiva; se le stanno dando, ma poi suonerà il gong.  Non è stato molto serio.

Sei ingeneroso. Avreste parlato al paese, lasciando Moro libero.

Il paese chiedeva molte cose, delle quali la liberazione di Moro non era certo la più pressante. La sinistra che non stava nello stato stava alla finestra. Liberare Moro con un atto unilaterale significava ammettere una parziale sconfitta o incassare un parziale successo – su questo si potrebbe discutere all’infinito. Ma per un’organizzazione di guerriglieri che avevano fatto un’operazione enorme, con un grandissimo impatto, lasciar libero Moro senza contropartita significava registrare un limite invalicabile della nostra strategia, ammettere che la guerriglia aveva un tetto che non avrebbe mai potuto sfondare. La guerriglia urbana, quella che avevamo definito nientemeno che la politica rivoluzionaria dell’epoca moderna, sarebbe apparsa sulla difensiva, e in fin dei conti lo stato invincibile. Era inaccettabile… non lo potete capire, non siete Brigate Rosse. Per questo, nonostante avessimo fatto di tutto per evitarla, all’unanimità decidemmo l’esecuzione. Dico all’unanimità perché due compagni che dissentono – Morucci e Faranda – non fanno un’eccezione, sono una eccentricità.

Non eravate in grado di far capire ai vostri militanti che un punto era stato segnato, una contraddizione aperta, e che liberando Moro rilanciavate sul piano politico?

Eravamo in grado di capire e far capire questo e altro. Ma non è il punto. Il punto è che qualsiasi cosa fosse successa dopo che avessimo lasciato libero Moro, liberarlo senza contropartita significava decretare la fine della lotta armata, ammettere che la lotta armata non può vincere. Una riflessione del genere, in quelle circostanze, nessuno poteva né proporla né accettarla, si sarebbe gridato al tradimento. Se mai, mi ostino a credere, una ridiscussione su noi stessi sarebbe stata favorita dalle circostanze opposte, quelle che la Dc e il Pci non vollero, o che non seppero cercare. Alla fermezza non potemmo rispondere che con uguale rigidità: “Non è una grande vittoria,” pensammo “ma almeno non è la sconfitta sicura”. Abbiamo processato la Dc, guadagnato grandi simpatie pur in quella tragedia e sotto quella cappa tremenda, e questo  ci resta. Tanto è vero che saremmo andati avanti ancora quattro anni.

Aldo Moro
Commenti Gianfranco Rotondi 17 May 2022 18:02 CEST

Caro Bellocchio, la fermezza di Andreotti salvò il nostro Stato

La polemica sul nuovo film di Marco Bellocchio “Esterno notte”, che sembra avallare la narrazione di un Andreotti cinico e spietato che quasi determinò la morte di Aldo Moro

Non vedrò il film di Marco Bellocchio, fidandomi dell’intuito di Stefano Andreotti, che ha annunciato la decisione di non voler assistere alla proiezione di un film cucito su misura del luogo comune del cinismo andreottiano. In realtà il film di Bellocchio prosegue una ricerca del regista sul ‘caso Moro’, già culminata nella precedente opera intitolata ‘Buongiorno notte’. Già nel primo film la ricostruzione storica del caso Moro era alquanto approssimativa. Ma tant’è : la licenza cinematografica è come quella poetica, e ci può stare una libera reinterpretazione fantastica delle vicende.

Temo però che ‘Esterno notte’ – che completa con due lungometraggi una vera e propria trilogia morotea di Bellocchio – vada leggermente oltre la licenza poetica: dalle pellicole scaturisce una adesione quasi ideologica alla vulgata di un Andreotti cinico e indifferente alla sorte di Moro, freddo esecutore di un disegno superiore volto ad eliminare Moro dalla scena politica. Siamo quasi alle chiacchiere da bar Sport del tempo del sequestro, quando si sentivano manipolo di destra e sinistra cianciare che ‘a far fuori Moro ci hanno pensato i democristiani’.

Dalla tragedia di Moro ci separano quarantaquattro anni. Vi sono stati processi, indagini, inchieste. Giace nelle biblioteche e nelle emeroteche una florida produzione giornalistica e letteraria sul tema. Più di recente vi è stata una commissione di inchiesta molto ben condotta da un politico intelligente e non prevenuto come Beppe Fioroni. Sulla genesi del caso Moro non sappiamo molto di più di quarantaquattro anni fa. La sola scelta condivisibile di Bellocchio è la titolazione evocativa della notte: il sequestro Moro fu davvero la notte della repubblica, il mistero dei misteri di una stagione repubblicana solcata ciclicamente da eventi tragici. Il senso di impotenza di fronte a tale mistero non può tuttavia giustificare l’adesione a costruzioni retoriche spacciate per verità: un film condiziona il pubblico soprattutto giovanile, ed è un peccato di superbia raccontare la morte di Moro come l’esito di una strategia lucida e cinica dei suoi compagni di partito. Certo, è stata la vulgata di un tempo di cui conserviamo memoria: Cossiga veniva presentato come servo di poteri internazionali che avevano condannato Moro a morte, e Andreotti esecutore se non correo del disegno. Ma era una vulgata, appunto, da bar Sport, senza le pretese di solennità di un evento culturale come la produzione di un film.

La verità è che la Dc scelse la linea della fermezza nei confronti delle Brigate Rosse. Decise di non trattare, di non aderire agli scambi di prigionieri e di favori variamente proposti da una cospicua e variopinta costellazione di mediatori. Tutta la Dc decise di rischiare la vita di Moro, ma di non cedere alla apertura di una trattativa che avrebbe messolo Stato alla pari se non in ginocchio rispetto al terrorismo rosso. La Dc scelse lo Stato, la fermezza, declinó nell’ora più tragica il suo dna di forza garante dell’ordine costituzionale, e su questa linea ebbe anche la solidarietà del PCI. Questo è vero, ed è indubitabile che il partito democristiano mettesse in conto l’uccisione di Moro. Ma di qui a concludere che la Dc volesse la morte di Moro,o fosse indifferente al suo destino, ce ne passa.

Tutti i democristiani erano consapevoli di sfidare il demonio terroristico. Molti leader democristiani misero per iscritto che – in caso di loro rapimento – non si doveva tener conto di eventuali loro appelli alla trattativa, perché contrari al giudizio che esprimevano in condizioni di serenità e di libertà. Di fronte a queste decisioni così drammatiche, non si può speculare raccontando il cinismo invece dell’eroismo dei democristiani. Quanto ad Andreotti, il cinismo accompagnava la sua leggenda. In realtà era solo un uomo molto controllato nelle emozioni, come era tipico della generazione nata tra le due guerre, e attraversata da tutte le tragedie collettive del novecento. Lo stesso mal di testa di Andreotti, malessere stabile di cui hanno raccontato generazioni di cronisti, facilmente era solo il riflesso psicosomatico della fatica di controllare il turbinio delle emozioni di una vita vissuta oltre la frontiera del rischio personale. I diari di Andreotti oggi ci restituiscono un uomo molto diverso: delicato nelle relazioni personali, attento verso amici ed avversari, sollecito maggiormente verso i deboli e coloro che erano declinato da posizioni di potere. Ma a una certa area culturale questa verità non piace. Viene preferita la maschera algida di Andreotti da offrire al grande pubblico, perché nella storia la Dc deve rimanere così, nella postura più inquietante.

La verità è che certa ‘intellighenzia’ non vuol far sapere ai posteri che a uccidere Moro furono terroristi rossi, comunisti mai pentiti, marxisti- leninisti coerentemente legati alla prassi dell’eliminazione fisica dell’avversario. Possono aver avuto complici internazionali persino nella loro controparte ideologica, ma certamente gli assassini erano loro, ì terroristi rossi. Ma questo è brutto da pensare e da raccontare. Meglio nascondere tutto dietro il sorriso cinico del divo Giulio.

Giustizia Gennaro Grimolizzi 17 May 2022 13:00 CEST

Uffici senza addetti: a Nocera e Tivoli i legali dicono basta

Nel Salernitano giudice di pace alla paralisi, vicino Roma cancellerie chiuse ai difensori perché sguarnite
uffici tivoli nocera

Gli avvocati di Nocera Inferiore sono esasperati dal cattivo funzionamento degli uffici del Giudice di pace. La carenza di personale e i notevoli carichi di lavoro hanno di fatto provocato la paralisi delle attività. Ecco perché il Coa di Nocera Inferiore, presieduto da Guido Casalino, dopo lo stato di agitazione indetto il 6 maggio scorso, ha deciso nell’assemblea straordinaria degli iscritti di andare avanti con la protesta. È stata infatti proclamata l’astensione dalle udienze civili e penali e da ogni attività giudiziaria dal 23 al 31 maggio prossimi.

Si tratta dell’unico modo, evidenzia il presidente Casalino, per far sentire la voce dell’avvocatura e sperare in interventi concreti per far ripartire il Giudice di Pace di Nocera. «La competenza territoriale di questo Ufficio giudiziario – dice al Dubbio Casalino – comprende ben nove Comuni ad alta densità abitativa. Abbraccia un bacino di utenza molto ampio da cui trae origine una significativa richiesta di giustizia da parte dei cittadini. Tanto è vero che, solamente nello scorso anno, sono state iscritte a ruolo oltre 13mila cause. A fronte di questa enorme mole di lavoro, attualmente, gli operatori amministrativi addetti all’Ufficio sono solo cinque. La pianta organica ne prevede invece tredici. La cronica carenza di personale sta avendo notevoli ripercussioni per le ordinarie attività giudiziarie, in particolare, per quelle riguardanti la pubblicazione delle sentenze, la richiesta e il rilascio dei titoli in forma esecutiva».

A preoccupare le toghe di Nocera è pure la condizione in cui versa il Tribunale. «La recente riforma che ha ridefinito la geografia giudiziaria – spiega il presidente del Coa – e che ha portato all’accorpamento al nostro Tribunale delle sezioni distaccate di Cava de’ Tirreni e Mercato San Severino, la cronica carenza di personale amministrativo, e il numero di magistrati inadeguato rispetto alla richiesta di giustizia del territorio, stanno contribuendo a determinare un sistema in costante affanno».

L’avvocato Casalino segnala alcuni esempi: «Nel Tribunale di Nocera Inferiore diverse cause fissate per la prima comparizione delle parti, la cosiddetta prima udienza, vengono rinviate d’ufficio anche a un anno, mentre numerosissime cause già mature per la decisione vengono differite dai giudici di diversi anni e si arriva addirittura al 2025. Viene sempre addotta quale motivazione quella dell’eccessivo carico di ruolo, che per ogni magistrato del Tribunale civile si ricompone di oltre duemila cause».

A poco più di duecento chilometri, a Tivoli, gli avvocati vivono gli stessi disagi. Qualche settimana fa, a causa della carenza del personale amministrativo e della magistratura onoraria, il presidente del Tribunale di Tivoli dovuto chiudere in via provvisoria ed emergenziale l’accesso alla cancelleria per gli avvocati e per l’utenza. Impossibile raggiungere il GdP il mercoledì.

«Oltre a tale chiusura – denuncia David Bacecci, presidente del Consiglio dell’Ordine – , se ne sono verificate altre, senza alcun preavviso, che hanno determinato il rinvio dei processi con conseguente allungamento della loro durata». Gli avvocati laziali hanno organizzato per il 20 maggio, davanti alla sede del Giudice di Pace, in viale Trieste, un sit-in di protesta. «Non possiamo più tollerare – afferma Bacecci – il silenzio e l’indifferenza del ministero della Giustizia, e di tutte le altre autorità che sono state interessate della vicenda, rispetto alla gravissima situazione, più e più volte segnalata, in cui si trova l’Ufficio di prossimità del Foro tiburtino». Il circondario del Tribunale di Tivoli comprende 75 Comuni per un totale di circa 600mila abitanti.

uffici tivoli nocera
Commenti Domenico Alessandro De Rossi 17 May 2022 10:26 CEST

“Scarcerare il Dap”: la proposta di riforma lanciata dal Cesp e dal Dubbio

Il mondo carcerario, ora inteso come sistema chiuso, va ripensato in una logica aperta alle dinamiche della complessità e della multidisciplinarità
carcere

Nonostante gli impegni formali della politica e del gigantesco apparato di tutti coloro che si sono alternati al capezzale del Dap, sono anni che l’esecuzione penale non funziona. Tra rivolte, fughe, suicidi, pestaggi, condizioni ambientali inaccettabili e trattamenti disumani, qualora si paragonassero i risultati dell’azione penale a quelli di una azienda, da tempo, si sarebbe dovuto dichiarare fallimento. Non è accettabile che ci si abitui a mantenere lo statu quo considerando la criticità del sistema come un fatto fisiologico. È il tempo per una riforma semplice ma coraggiosa, finalizzata alla radicale revisione delle caratteristiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Il Centro Europeo Studi Penitenziari all’art. 4 del suo statuto dichiara «Il Cesp promuove il cambiamento dell’atteggiamento politico sociale nei confronti delle finalità della detenzione, da un momento di sola contenzione al momento di sostegno di un recupero e reinserimento sociale della persona, fino al termine della pena, genera la necessità di sviluppare nuovi modelli operativi/ organizzativi e conseguenti strutture edilizie in grado di attuare i nuovi criteri metodologici».

In base alle sue finalità statuali, il Centro studi proprio nello spostamento del Dipartimento dal ministero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei ministri, ha ben visto la soluzione proposta dal presidente onorario del Cesp Enrico Sbriglia, la quale statuirebbe finalmente la necessaria cesura sul piano della gestione amministrativa tra il potere giudiziario e quello esecutivo. Tale ipotesi rimuoverebbe talune problematiche contraddittorie, comprovando la correttezza per quanto la ministra della Giustizia Cartabia abbia voluto intendere decidendo di affidare la direzione del Dap a un magistrato di sorveglianza piuttosto che a un procuratore della Repubblica.

Da sempre presidio della magistratura, il Dipartimento, non solo per i ghiotti emolumenti previsti, non può più attendere ulteriormente una ristrutturazione anche in funzione del Pnrr con un progetto organico, che lo veda finalmente migrare alla più diretta responsabilità e informata articolazione presso la presidenza del Consiglio dei ministri, alla pari del Dipartimento della Protezione Civile e del Dipartimento delle politiche antidroga.

Nel rispetto della Costituzione, l’ottenimento di una effettiva rieducazione del condannato dovrebbe vedere il Dap liberato dalla rigidità ministeriale, dalle dispute correntizie delle toghe, dalla verticistica gestione delle procure. Nel divenire diretta espressione dell’Esecutivo, il Dap recupererebbe la sua autonomia nei confronti della gestione da sempre in mano alla magistratura, consoliderebbe una cultura sistemica e multidisciplinare, diversa in effetti dalla sola potestà giudiziale e legalistico- securitaria, consentendo una diversa attribuzione delle stesse funzioni dipartimentali, con altre competenze, altre professionalità ed esperienze più vicine alle problematiche umanitarie.

In questa ipotesi, differenti competenze consentirebbero di reinterpretare, attraverso nuovi parametri culturali, non più gravati da discutibili consulenze, il ritrovamento delle effettive funzioni delle strutture edilizie destinate alla custodia.

Nuove attribuzioni quindi, tutte da ridefinire attraverso trasparenti e articolati organismi scientifici, tecnici e sociali, in grado di offrire formazione e recupero della persona e capacità lavorativa anche di servizio al territorio. Senza obliterare le giuste richieste di sicurezza, una consimile struttura somiglierebbe di più ad una rete di filiere specializzate e interconnesse sul territorio che non a singole obsolete realtà dove si soffre, ci si ammala e si muore. Le neuroscienze e diritti umani, concependo nuove funzioni per nuovi spazi dove si apprende e lavora, favorirebbero il desiderio di appartenenza e reintegrazione sociale. In linea con l’approccio scientifico che caratterizza le sue metodologie di studio, la proposta del Cesp intende liberare culturalmente il carcere, attualmente inteso come sistema chiuso, per ripensarlo in una logica sistemica aperta alle dinamiche della complessità e della multidisciplinarità.

Il carcere attuale diverrebbe altro da sé, aiutando coloro che vi entrano, dando loro una maggiore opportunità di reinserimento sociale, eliminando o attenuando di molto la recidiva e la radicalizzazione nel rispetto della vera finalità dell’art. 27. E’ ovvio che in tal caso la dirigenza dovrebbe provenire direttamente dalle scelte governative e quindi dell’Esecutivo, organo costituzionale più direttamente aderente alla realtà del corpo sociale e della cultura di fondo più specializzata nella pianificazione e nel management, oltre che nell’effettiva conoscenza della gestione delle risorse umane, supportata da una maturata esperienza nel settore Human rights. Il Cesp e Il Dubbio, attraverso il progetto in corso di elaborazione, intendono promuovere un dibattito aperto sulle predette disfunzionalità e proposte, riportando all’interno delle regole penitenziarie europee (Parte V Direzione e Personale – Il Servizio penitenziario come servizio pubblico – punto 71) il Servizio Penitenziario Nazionale: «Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale».

In tal senso il Cesp e Il Dubbio attiveranno nei prossimi mesi un ampio confronto su questa tematica che si concluderà con un primo convegno aperto a tutte le forze politiche interessate, volto a fornire il motore di una decisa azione legislativa che veda transitare nei prossimi anni il Dap presso il diretto controllo della presidenza del Consiglio liberandolo dalle vischiosità ministeriali. (*vicepresidente Cesp)

carcere
Politica Giacomo Puletti 17 May 2022 10:11 CEST

Ancora screzi Pd-M5S. L’alleanza giallo-rossa rischia di bruciare in un inceneritore

Non solo divisioni su guerra e Nato. Il termovalorizzatore di Roma apre nuove crepe. Ecco i possibili scenari
Pd M5S inceneritore Roma

Ci sono due questioni, più di altre, che rendono difficile il dialogo tra Pd e Movimento 5 Stelle. La prima è la guerra e tutto ciò che ne consegue, dall’invio di armi a Kiev, sacrosanto per i dem, rivedibile per i grillini, al sostegno all’entrata di Finlandia e Svezia nella Nato, altrettanto sacrosanto per Enrico Letta, qualcosa su cui ragionare per Giuseppe Conte (ma non per Luigi Di Maio, uno dei più attivi sul fronte del sì, e in fretta, all’adesione dei due paesi scandinavi). L’altra è il termovalorizzatore di Roma, dopo il passo in avanti compiuto dal sindaco Pd, Roberto Gualtieri, e lo stop pentastellato. Uno stop, questo, ancor più forte di quello per la fornitura di armi all’Ucraina, tanto che Virginia Raggi ha auspicato che il Movimento stacchi la spina al governo in caso di approvazione del decreto Aiuti (che contiene la norma sull’inceneritore) e lo stesso Conte, che ieri ha convocato il Consiglio nazionale proprio su questi temi.

In mezzo, le Amministrative di giugno in cui i due partiti correranno assieme in tutti i 26 capoluoghi di provincia al voto, di cui quattro capoluoghi di Regione, dato che tuttavia non impedisce di osservare le diversità con cui dem e grillini arrivano all’appuntamento: compatti i primi, con la cura Letta che ha attestato ormai il Nazareno sopra al 20 per cento; in discesa i secondi, con i sondaggi che segnano un 12,5 per cento e soprattutto con la grana di non essere riusciti a presentare una lista in città come Verona, Parma, Belluno e Monza.

In tutto questo caos, dunque, come si può parlare ancora di campo largo di centrosinistra in vista delle Politiche 2023? A rispondere ci ha pensato direttamente Letta, che domani riunisce la direzione del partito, e lo ha fatto tirando l’acqua al suo mulino. «Il centrosinistra è dove c’è il Pd e quindi noi pensiamo che il centrosinistra non sia diviso ha detto ieri a Piacenza sostenendo la candidata a sindaco Katia Tarasconi – Il Pd ha riguadagnato centralità, forza e generosità e stiamo lavorando a una coalizione larga: sono molto convinto che questo lavoro porterà i suoi frutti soprattutto in vista delle Politiche».

Insomma, il centrosinistra è prima il Pd, poi, in caso, gli altri. Una linea sposata alla perfezione da Andrea Marcucci, ex capogruppo dem in Senato, che ieri è tornato a ribadire come «con i possibili alleati serve chiarezza» perché «le intese elettorali si possono fare solo concordando la stessa piattaforma». Ovvero, secondo Marcucci, «agenda Draghi, europeismo, atlantismo», perché «non possiamo ammettere indecisioni».

Indecisioni che invece dalle parti del Movimento ci sono eccome, in primis quelle per la scelta del candidato a sostituire Vito Petrocelli alla presidenza della commissione Esteri del Senato. E qui si torna alla prima delle questioni scottanti, cioè la richiesta di adesione all’Alleanza atlantica di Helsinki e Stoccolma. Che, in attesa della ratifica del Parlamento che saprà tanto di resa dei conti nella maggioranza, certifica la diversità di vedute tra l’ala dimaiana e quella contiana tra i grillini. «La collega svedese Ann Linde (ministra degli Esteri svedese, ndr) mi ha appena comunicato che il suo Paese ha depositato la richiesta di adesione alla Nato – ha scritto ieri Di Maio su Twitter Mi sono congratulato e ho assicurato il supporto dell’Italia: avanti sempre più uniti».

Con buona pace di chi, dai più alti dirigenti grillini all’ultimo dei peones, non vede di buon occhio la mossa tanto sostenuta dal ministro degli Esteri. Qualcosa su cui andare d’accordo, Conte e Di Maio, in realtà ieri l’hanno trovato. Cioè l’assoluzione dell’ex sindaca di Torino, Chiara Appendino, dall’accusa di falso in bilancio nell’ambito del processo Ream. «Non abbiamo mai avuto dubbi sulla tua integrità e sull’azione politica che hai portato avanti e la sentenza di oggi ti rende giustizia», ha detto Conte all’ex prima cittadina, mentre Di Maio si è detto «felice» per l’assoluzione di «una donna che ha sempre dato il massimo per la sua città e per il MoVimento 5 Stelle». Ma a meno di un mese dalle Amministrative, i giorni in cui Appendino batteva Fassino a Torino e Raggi diventava sindaca di Roma, sembrano più lontani che mai.

Pd M5S inceneritore Roma
Intervista Francesca Spasiano 16 May 2022 11:32 CEST

«La tutela del figlio prevalga su tutto. Il genitore violento deve essere allontanato…»

Intervista al giudice di Roma Filomena Albano, già presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. «La mia esperienza mi dice che i procedimenti di affidamento richiedono una marcia in più da parte di tutti»
Filomena Albano tutela figlio

«Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio, e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore». Ne è convinta Filomena Albano, già Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, oggi giudice presso il Tribunale di Roma, sezione famiglia e minori. Con lei analizziamo i dati della relazione sulla “vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”, presentato venerdì scorso dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente.

Il rapporto indaga questo fenomeno “invisibile”, analizzando e quantificando per la prima volta in maniera scientifica i percorsi di violenza nelle aule di tribunale, in ambito civile. Ciò che ne emerge è che la violenza sostanzialmente non viene compresa e riconosciuta. La sua esperienza conferma questo quadro?

La mia esperienza sia come Giudice della famiglia e dei minori sia, in precedenza, come Presidente della Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, mi dice che i procedimenti di affidamento dei figli, in cui sono allegati fatti di violenza, richiedono una marcia in più di tutti – giudici, avvocati, consulenti tecnici, responsabili dei servizi – e una corsia preferenziale nella trattazione. Altrimenti c’è il rischio che la violenza sia invisibile, sia confusa con il conflitto familiare, e che, con il passare del tempo, la ricostruzione dei fatti diventi sempre più complessa.

Il Giudice, quando vi sono allegazioni di violenza, deve procedere ad accertare i fatti, senza attendere l’esito del giudizio penale, che può intervenire anche dopo anni, perché in presenza di bambini e ragazzi occorrono decisioni rapide a loro tutela. La relazione della Commissione ha raccolto e analizzato dati del 2017; in questi ultimi 5 anni registro una progressiva maggiore attenzione al tema della violenza domestica e una aumentata consapevolezza del fatto che una persona violenta non può contemporaneamente essere considerato un buon genitore.

Vediamo i dati nel dettaglio. Secondo il rapporto, in circa un terzo dei casi analizzati sono presenti allegazioni di violenza. Ma nelle cause di separazione con affido dei figli, nel 96% dei casi i tribunali ordinari non acquisiscono gli atti relativi. Perché?

Perché il coordinamento tra penale e civile non sempre funziona, perché il grande numero di procedimenti in materia di affidamento dei figli rende difficile la necessaria trattazione tempestiva di quelli di violenza domestica, perché l’altra parte del processo quasi sempre contesta i fatti. E invece il Giudice civile deve non solo acquisire gli atti, ma anche procedere direttamente ad accertare i fatti, attraverso informatori, l’ascolto del minore, il libero interrogatorio delle parti, l’esame dei referti medici, delle fotografie, senza attendere l’esito del penale, che può intervenire anche dopo anni, mentre nei procedimenti di affidamento dei figli il tempo è importante.

Sarebbe necessario, dunque, un maggiore coordinamento tra il penale e il civile?

Il coordinamento deve essere migliorato. In diversi uffici giudiziari sono nati protocolli che prevedono scambi di informazioni e trasmissione di provvedimenti tra procura e giudice civile e tra giudici minorili e giudici civili, ma rimettersi alle buone prassi degli uffici non è sufficiente. Occorre un sistema informatico integrato che consenta al giudice civile di conoscere se a carico di un genitore che chiede l’affido condiviso del figlio vi sia un procedimento penale pendente per maltrattamenti in famiglia, accedere agli atti ostensibili, anche per evitare inutili duplicazioni di accertamenti, con perdita di tempo e di risorse e sofferenza per le vittime, sentite più volte nelle aule di giustizia.

Spesso la violenza non viene neanche nominata nei processi, o viene derubricata a “conflitto familiare”. Un riflesso culturale che ha ricadute giuridiche?

Il conflitto va distinto dalla violenza, ma la capacità di distinguere richiede competenze e esperienza, fin dalla introduzione dei giudizi, negli atti introduttivi da parte degli avvocati. Occorre sottolineare con forza che la violenza assistita è una grave forma di maltrattamento ai danni dei figli e impedisce l’esercizio condiviso della genitorialità.

Il principio di bigenitorialità è considerato prioritario, anche quando c’è violenza. Ma secondo le ultime pronunce della Cassazione dovrebbe prevalere il superiore interesse del minore.

Una persona violenta non può essere un buon genitore, non può svolgere il ruolo educativo di guida autorevole nei confronti del figlio e il principio di bigenitorialità deve cedere rispetto al superiore interesse del minore che, in ogni bilanciamento di interessi, va riconosciuto preminente, come ci ricorda l’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, le norme costituzionali e sovranazionali. Il diritto alla bigenitorialità – che è un diritto del figlio – opera in presenza di genitori che hanno idonee capacità genitoriali.

L’ascolto del minore soggetto dell’affido viene disposto raramente. Perché?

Sbagliato. L’ascolto illumina il Giudice perché consente di fotografare dalla viva voce del minore la situazione familiare e risponde a un diritto dei bambini e dei ragazzi, che non devono essere invisibili nelle aule giudiziarie. Devono essere indicati con il loro nome, ricordando che non si tratta di “minori” ma di persone di minore età, titolari di diritti. Ormai peraltro il legislatore ha reso obbligatorio l’ascolto dei minori ultra dodicenni (art. 336 bis codice civile).

Nelle consulenze tecniche le donne sono spesso definite “alienate, simbiotiche, fragili”. E a questo giudizio consegue una scelta drammatica: denunciare, con il rischio di vedersi allontanare i figli, o sopportare.

Prima delle valutazioni psicologiche, affidate alle CTU, occorre che il Giudice esamini i fatti, anche avvalendosi dei suoi poteri di ufficio, a tutela dei figli minori, e lo faccia con tempestività, pur con le difficoltà derivanti dal numero dei procedimenti, perché la vittima deve sentire che le istituzioni sono dalla sua parte e che denunciare, far emergere la violenza, parlarne, è la scelta vincente, per sé stessa e come modello educativo per i figli.

Il giudice può delegare la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica. Ma questi professionisti possono offrire un punto di vista parziale?

Si tratta di profili distinti. Il consulente tecnico, nei giudizi di affidamento dei figli, ha il compito di valutare, nei suoi risvolti psicologici, le competenze genitoriali, ma il compito di accertare la sussistenza dei fatti di violenza, allegati negli atti, è un compito del Giudice, e non può essere ovviamente delegato.

Veniamo al tema della formazione e della specializzazione di tutti gli operatori della giustizia. A che punto siamo?

Sono positiva. Dal 2017 ad oggi vi è maggiore consapevolezza in ordine al tema della violenza, grazie alle iniziative in campo, ai corsi di formazione della Scuola Superiore della magistratura, dell’avvocatura, alle tante iniziative del privato sociale e delle associazioni che lavorano dalla parte delle vittime, all’opera di sensibilizzazione portata avanti dalla Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, alle iniziative degli uffici giudiziari che hanno individuato buone prassi per migliorare la comunicazione tra penale e civile e tra famiglia e minori tentando di superare la frammentarietà e duplicazione degli interventi.

Cultura, buone prassi, buone norme. Cosa serve di più alla giustizia?

Serve un cambio di passo culturale che parta dai più piccoli, dalle scuole, la cultura del rispetto nei confronti dell’altro deve essere la cultura dominante. La giustizia interviene sempre in un secondo momento, riflette i cambiamenti culturali, intercetta le spinte riformatrici che impongono un cambio di passo. È quello che si sta verificando adesso. È il momento della speranza e del cambiamento.

Filomena Albano tutela figlio
Cronaca 16 May 2022 10:36 CEST

Così la violenza di genere diventa invisibile e viene ignorata

La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata nei casi di reati di genere: l’effetto principale è scoraggiare la denuncia
violenza di genere rapporto

Nel nostro Paese il 34,7% delle cause giudiziali di separazione con affido presenta indicazioni di violenza domestica mentre per quanto riguarda i procedimenti minorili sulla genitorialità siamo in presenza di violenza domestica nel 34,1% dei casi e nel 28,8 per cento di violenza diretta su bambini e ragazzi, per l’85% agita dai padri. Si tratta di fenomeni per lo più “invisibili”, perché non riconosciuti dagli operatori nel corso dei processi. Di più, in queste cause di separazione con figli in cui sono presenti tracce di violenza, nel 96% dei casi i Tribunali ordinari non acquisiscono i relativi atti e anche nell’iter successivo non ne tengono conto nell’84,4% dei casi anche per decidere sull’affido dei figli, mentre i Tribunali per i minorenni nei casi in cui c’è violenza finiscono con l’affidare i minori nel 54% dei casi alla sola madre, anche con incontri liberi con il padre violento.

Sono questi in estrema sintesi i dati che emergono dall’ultima indagine della Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere dal titolo «La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale», che è stata approvata all’unanimità il 20 aprile 2022.La vittimizzazione secondaria è una conseguenza spesso sottovalutata proprio nei casi in cui le donne sono vittima di reati di genere, e l’effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa.

La Commissione, sollecitata anche dalle numerose richieste di madri vittime di violenza a cui sono stati – in molti casi – sottratti i figli, facendosi carico di questo tema, ha deliberato di svolgere un’inchiesta volta a verificare la concreta attuazione in Italia dei principi della Convenzione di Istanbul e a individuare la portata del fenomeno cosiddetto di vittimizzazione secondaria in danno di donne e minori vittime di violenza. L’oggetto dell’indagine sono stati i procedimenti sulla responsabilità genitoriale pendenti a marzo 2017 di fronte ai Tribunali per i minorenni.

Lo scopo è stato di «verificare la capacità di tutti gli attori coinvolti nei procedimenti de responsabilitate (magistrati togati o onorari, avvocati, consulenti e servizi sociali) di riconoscere la violenza e di considerarla un discrimine ai fini della decisione sulla responsabilità genitoriale e sulla domiciliazione dei figli minori, di comprendere se è presente una specifica formazione in materia di violenza di genere, di accertare quanto venga rispettata in concreto la Convenzione di Istanbul». Il campione statistico ha riguardato 620 fascicoli, rappresentativi dei 1452 iscritti nei Tribunali per i minorenni al ruolo nel mese di marzo 2017. In Italia il numero complessivo di tali procedimenti nel 2017 era di 18938, di cui 13704 iscritti nei 12 Tribunali selezionati (Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Roma, Taranto e Torino).

LA VIOLENZA NEI CONTESTI FAMILIARI E AFFETTIVI

L’analisi ha rilevato che nel 34,1% dei casi nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale pendenti nei Tribunali per i minorenni sono presenti allegazioni di violenza (atti, denunce, annotazioni) e/o di disfunzionalità genitoriale che portano al rifiuto del figlio di vedere il genitore violento. Di questi, l’86,3% riguardano allegazioni di violenza, ovvero affermazioni di una delle parti (da sottoporre a verifica nel corso o all’esito del procedimento) relative a comportamenti violenti di uno o di entrambi genitori nei confronti dell’altro genitore o della prole, il 3% riguardano disfunzionalità genitoriali, ovvero comportamenti solo potenzialmente pregiudizievoli per i figli, mentre il 10,7% riguardano sia allegazioni di violenza che disfunzionalità genitoriali.

Nel 16,9% dei fascicoli in cui si è riscontrata la presenza di violenza domestica sono presenti anche misure cautelari, in gran parte a carico del padre (91,3%). Nel 6,7% dei casi sono presenti sentenze penali di condanna, in gran parte a carico del padre (84,7%). Da notare che i documenti relativi alle violenze sono già presenti nelle memorie di costituzione e negli atti introduttivi, con deposito di atti quali referti o denunce nel 65,2% dei casi. Nel 28,8% dei procedimenti pendenti davanti ai Tribunali per i minorenni, la violenza riguarda direttamente il minore e viene esercitata nell’85,1% dei casi dal padre, nell’8,6% dei casi dalla madre e nel 6,3% da entrambi i genitori. Nel 9,4% dei casi con allegazioni di violenza e/o disfunzionalità genitoriale, viene segnalato negli atti introduttivi il rifiuto del minore di vedere un genitore, che nel 70,3% dei casi è il padre. Anche di fronte ai Tribunali dei minorenni, l’ascolto dei bambini e dei ragazzi avviene solo nel 33,4% dei casi.

«Numerosi – scrive la Commissione – sono gli affidi ai servizi sociali, riscontrati nel 55,2% dei casi (175 casi su 317), misura che appare particolarmente punitiva per i genitori e fortemente rivittimizzante per le madri che hanno subito maltrattamenti. In questi casi, infatti, il genitore viene esautorato». Nel 56,3%, cioè molto più della metà dei casi, l’affido ai servizi sociali viene confermato anche nell’ultimo provvedimento provvisorio assunto dal Tribunale per i minorenni. L’indagine ha appurato che nell’80,4% dei casi in cui il Tribunale per i minorenni ha adottato una decisione conclusiva: nel 19% ha confermato l’affidamento ai servizi sociali, nell’8% il collocamento presso i due genitori, nel 54% il collocamento presso la sola madre, con incontri anche liberi con il padre violento.

«Solo a titolo esemplificativo – si legge nella Relazione – alcune delle ipotesi più ricorrenti di possibile vittimizzazione secondaria nell’ambito dei procedimenti civili e minorili, numerosi sono i casi in cui sono le stesse norme a condurre a questo effetto. Nei procedimenti di separazione e divorzio giudiziale, rispettivamente l’articolo 708 codice di procedura civile e l’articolo 4 della legge n. 898/1970, prevedono espressamente la presenza congiunta dei coniugi davanti al Presidente per il tentativo di conciliazione, senza alcuna deroga; l’applicazione di queste disposizioni in presenza di condotte di violenza domestica – in alcuni casi anche accertate dall’autorità penale – produce come conseguenza la necessaria contemporanea presenza nel medesimo contesto della donna che ha subito violenza e del partner violento, senza che sia prevista l’adozione delle cautele invece dettate nell’ambito dei procedimenti penali. La soggezione psicologica che subisce la vittima, in mancanza di adozione di necessarie tutele, può avere come conseguenza non solo l’esposizione a tensioni e pressioni agite dal violento, ma anche l’impossibilità per la vittima di esporre nel dettaglio le condotte subite nel corso della relazione familiare, con il rischio di mancata emersione dei comportamenti di violenza».

Ma la forma più ricorrente e grave di vittimizzazione secondaria può realizzarsi – continua la Relazione – nei procedimenti di affidamento dei figli, in conseguenza della mancata applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, nel quale si prevede che «al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione».

Il mancato accertamento delle condotte violente e la conseguente mancata valutazione di tali comportamenti nella adozione di provvedimenti di affidamento dei figli, ha come conseguenza l’emanazione di provvedimenti stereotipati che dispongono l’affidamento condiviso del minore ad entrambi i genitori, senza distinguere tra il genitore violento e la genitrice vittima di violenza. Con conseguente imposizione alla madre, per provvedimento della stessa autorità giudiziaria, di assumere decisioni – peraltro sovente ostacolate dal genitore violento, con l’ulteriore pregiudizio per il minore che spesso rimane privo dei necessari interventi di sostegno – per i figli insieme con l’autore della violenza, con il rischio di essere di nuovo esposta ad aggressioni, a pressioni o a violenti condizionamenti.

I CASI EMBLEMATICI

La Commissione ha esaminato 36 casi di procedimenti aventi ad oggetto domande di affidamento di figli minori o relative alla titolarità della responsabilità genitoriale in cui le madri hanno denunciato di essere state vittime di violenza ovvero hanno denunciato i partner per abusi sui minori. Nell’ambito di questi 36 procedimenti, 25 donne sono state sottoposte, come epilogo delle loro vicende, ad un provvedimento con cui è stata limitata la loro responsabilità genitoriale ed i figli sono stati allontanati e collocati in luoghi alternativi all’abitazione nella quale vivevano, in applicazione di percorsi trattamentali che richiamano la cosiddetta Pas o teorie analoghe. Nei casi restanti vi sono consulenze tecniche che si pronunciano negativamente sulle capacità genitoriali delle madri ma che non hanno portato, al momento, a provvedimenti di allontanamento dei figli, anche se i casi sembrano purtroppo avviati ad avere la medesima conclusione.

Nei casi esaminati, pur non costituendo un campione rappresentativo del fenomeno del riconoscimento della violenza di genere nei procedimenti aventi ad oggetto domande di affidamento di figli minori o relative alla titolarità della responsabilità genitoriale, emergono criticità che possono fornire elementi di conoscenza, soprattutto in relazione alle evidenze emerse dall’indagine statistica: la violenza denunciata dalle madri su di loro o sui minori non viene riconosciuta nei procedimenti civili o minorili.

Le consulenze tecniche di ufficio presentano varie criticità: i consulenti non vengono scelti in albi con specifica formazione sui temi della violenza di genere; non si ricostruisce la storia della violenza; trova applicazione la molto discussa teoria dell’alienazione parentale, secondo la quale la funzione del padre è imprescindibile per il minore in nome della bigenitorialità, per cui se la violenza non viene riconosciuta le madri sono alienanti rispetto ai padri violenti; i minori cambiano spesso collocazione dalla madre al padre, a volte con un periodo temporaneo in struttura per essere preparati, con l’ulteriore trauma del prelievo forzoso.

CRITICITÀ E PROPOSTE

Nella maggior parte dei procedimenti analizzati non emerge dunque una specifica attenzione al tema della violenza domestica, anche in presenza di allegazioni di parte in merito all’esistenza di condotte violente, e in alcuni casi persino in presenza di provvedimenti emessi nell’ambito di procedimenti penali. Nessuna specifica istruttoria viene compiuta per verificare se, in concreto, le condotte violente descritte dalla donna negli atti di causa o riferite nel corso delle udienze, siano state poste in essere. Solo in pochi casi si realizzano forme di coordinamento tra le autorità giudiziarie.

Nei procedimenti presso i Tribunali ordinari, nessuna cautela viene adottata per evitare forme di vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento: le parti compaiono davanti al giudice contemporaneamente per il tentativo di conciliazione. «In una prospettiva di riforma – continua la Relazione – occorre cambiare innanzitutto l’approccio culturale nei confronti della violenza contro le donne. Prima ancora di valutazioni e accertamenti psicologici, tutti gli operatori coinvolti a vario titolo nel ciclo della violenza devono ‘riappropriarsi dei fatti’, interrogandosi ed accertando, ad esempio, le ragioni per cui un minore rifiuta di incontrare un genitore. È necessario che i giudici tornio alle prove “classiche”: sentire come informatori o testi i familiari, i vicini di casa, gli insegnanti.

In caso di pendenza di processi penali occorre acquisire gli atti utili». La Commissione pertanto, in relazione alle criticità e alle buone prassi richiamate, raccomanda a tutti gli attori istituzionali coinvolti, a partire dal Parlamento, formazione specialistica in materia di violenza domestica e assistita per tutti gli operatori e l’applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul sulla custodia dei figli.

Al riguardo, la Commissione ipotizza la modifica dell’articolo 337-ter del codice civile, specificando che il ‘diritto alla bigenitorialità‘ opera solo in presenza di genitori dotati di idonee capacità genitoriali, da ritenersi non sussistenti a carico del genitore autore di violenza domestica ed assistita, nel presupposto che il best interest del minore sia garantito pienamente assicurando al minore tutela dalla violenza domestica ed assistita; la modifica dell’articolo 337-quater del codice civile, che disciplina l’affidamento esclusivo dei minori ad un genitore, introducendo una presunzione di disfunzionalità genitoriale a carico del genitore violento, prevedendo che in presenza di indici di violenza domestica il giudice debba disporre l’affidamento esclusivo del figlio minore al genitore vittima di violenza, salvo che ciò non sia attuabile per altri motivi accertati; la modifica degli articoli 330 e 333 del codice civile, che disciplinano rispettivamente la decadenza dalla responsabilità genitoriale e le condotte del genitore pregiudizievoli per il figlio, prevedendo che in presenza di indici di violenza domestica l’accertamento di fatti di violenza domestica (da compiere anche in via incidentale nell’ambito del procedimento civile o minorile) costituisca condotta pregiudizievole compiuta dal genitore autore della violenza in danno del minore, salva prova contraria.

La Commissione suggerisce di prevedere che in presenza di accertamento, anche in via incidentale e provvisorio, di condotte di violenza domestica vengano adottate idonee misure a tutela dei minori e del genitore che abbia subito violenza per le frequentazioni con il genitore che abbia agito violenza.

Nel caso di allegazioni di violenza è necessaria attività istruttoria e ascolto diretto del minore e accertamenti tecnici, con esclusione di teorie non riconosciute ed accettate dalla comunità scientifica (Pas). Occorre vietare il prelievo forzoso dei minori al di fuori delle ipotesi di rischio di attuale e grave pericolo per l’incolumità fisica del minore stesso. La Commissione propone inoltre di istituire con urgenza una commissione interministeriale (Giustizia e Salute) che esamini l’attuale condizione di tutti i minori allontanati coattivamente dalla loro abitazione, valutandone gli effetti sul minore stesso e sulle madri. Indispensabile, infine, il sostegno alle donne vittime di violenza. La Commissione richiede di ampliare i requisiti di accesso al patrocinio a spese dello Stato per le donne vittime di violenza che debbano difendersi in provvedimenti civili o minorili per l’affidamento dei figli.

violenza di genere rapporto
Esteri 16 May 2022 09:31 CEST

Ucraina: gli 007 britannici: «La Bielorussia non entra in guerra per evitare sanzioni»

Secondo l’intelligence della Gran Bretagna, Lukashenko evita il coinvolgimento militare, anche perché nell’esercito bielorusso ci sarebbe malcontento
bielorussia guerra ucraina

«Nonostante le precedenti ipotesi, le forze bielorusse non sono state coinvolte direttamente nel conflitto fino ad oggi. Tuttavia, il territorio bielorusso è stato utilizzato come trampolino di lancio per l’offensiva iniziale della Russia su Kiev e Chernihiv. La Russia ha anche effettuato attacchi aerei e missilistici dalla Bielorussia. È probabile che Alexander Lukashenko cerchi di evitare il coinvolgimento militare diretto a causa del rischio di sanzioni occidentali, oltre che per la reazione dell’Ucraina e il possibile malcontento dell’esercito bielorusso». Lo scrive su Twitter l’intelligence britannica.

Guerra in Ucraina, gli aggiornamenti

«Nelle ultime 24 ore sono stati respinti 17 attacchi del nemico, distrutti 3 carri armati, un sistema artiglieristico, 6 unità dei mezzi militari e un’auto». Lo scrive su Twitter Serhii Haidai, governatore della regione di Luhansk, aggiungendo che «stanotte nella direzione di Severodonetsk i russi hanno attaccato i quartieri residenziali, danneggiato 7 grattacieli, ferito un ragazzo di 15 anni a Lysychansk, che ora si trova in ospedale di Dnipro. 20 case sono state danneggiate nella comunità territoriale di Popasna».

bielorussia guerra ucraina
Giustizia 15 May 2022 20:46 CEST

Renzi: «Ermini? Eletto al Csm con il metodo Palamara, posso testimoniarlo»

Scontro tra il leader di Iv e il vicepresidente del Csm. Che ha annunciato querela per alcuni passaggi del libro “Il mostro”: «Da Renzi affermazioni false e temerarie»
Renzi Macron

«Leggo che il vicepresidente del Csm intende denunciarmi per ciò che ho scritto ne “Il Mostro”. Non vedo l’ora di ricevere l’atto di citazione. Potrò dunque raccontare – libero da ogni forma di prudenza istituzionale – tutto ciò che in questi lunghi anni l’avvocato David Ermini ha detto, scritto e fatto. Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al metodo Palamara e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo». Così il leader di Iv Matteo Renzi risponde al vicepresidente del Csm, David Ermini, che ha annunciato querela per quanto contenuto nell’ultimo libro dell’ex premier.

«Le cene romane di Ermini – fin dalla scorsa legislatura – sono numerose e tutte verificabili e riscontrabili. La sua storia da candidato sindaco bocciato a Figline Valdarno, aspirante consigliere provinciale, poi da parlamentare e da candidato vicepresidente del Csm è ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare in sede civile, a cominciare dai numerosi scambi di sms di questi anni. Quanto ai verbali ricevuti da Davigo, e inspiegabilmente distrutti, Ermini avrà modo di chiarire in sede giudiziaria il suo operato», aggiunge Renzi, con riferimento alla vicenda degli interrogatori dell’ex legale esterno di Eni Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria.

«Sostenere che io avrei distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla procura di Milano” eliminando “il corpo del reato” è affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria», ha commentato il vicepresidente del Csm dopo la pubblicazione di alcuni estratti del libro sui giornali. «Quanto al resto, ne prendo atto con amarezza, ma con la certezza – ha concluso Ermini – che non consentirò mai a nessuno di mettere in discussione la mia lealtà istituzionale che è e sarà sempre libera da condizionamenti».

 

Renzi Macron
Giustizia 15 May 2022 13:15 CEST

Omicidio Calabresi, Castelli: «La sinistra mi mise in croce per la grazia a Sofri, lui non la chiese mai»

L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi non accolse mai la richiesta, malgrado Ciampi avesse più volte manifestato la volontà di concederla

«Sono abbastanza vecchio da ricordare l’omicidio Calabresi, ero all’università, fu subito chiaro che si trattata di un omicidio vile, tipico dei campioni delle Br e dell’area terroristica di sinistra, usi a colpire alle spalle, killer che freddavano persone inermi». L’ex ministro della Giustizia del secondo governo Berlusconi, Roberto Castelli, tra i fondatori della Lega, ricorda così il clima in cui maturò, il 17 maggio del 1972, l’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi. Trenta anni dopo si ritrovò da ministro della Giustizia del governo Berlusconi a fare i conti con quella vicenda, negando più volte la grazia al leader di Lotta Continua Adriano Sofri, condannato nel frattempo come mandante dell’omicidio.

«Io – ricorda in un colloquio con l’Adnkronos Castelli – dopo la confessione di Marino, ritenuta credibile, attendibile e realistica, ritenni che la pena, quella condanna per i leader di Lc, fosse del tutto meritata, avesse tutte le ragioni del caso». Ma poi sulla sua scrivania arrivarono le richieste di grazia: «Per me non c’erano i termini per quel provvedimento – sottolinea l’ex guardasigilli – l’amnistia si concede per chiudere una stagione politica, un’era, come fece Togliatti nel ’46, qui parlavamo di grazia, che invece va prevista nei confronti di qualcuno che si ritiene abbia scontato una giusta pena e che si sia ravveduto, non mi pareva il profilo di Sofri».

Nel 2003 Castelli dice no, stessa cosa fa nel 2005. Nel frattempo il presidente della Repubblica Ciampi avvia la pratica per la grazia a Bompressi, firmata dal suo successore Napolitano nel maggio del 2006. «Una cosa incostituzionale, per me, anche se ci fu una sentenza della Consulta a favore, che grida ancora vendetta», sottolinea l’ex guardasigilli. Inoltre ribadisce oggi Castelli, tornando a Sofri «lui non ha mai fatto richiesta di essere graziato, troppa protervia, mentre la sinistra che mi mise in croce, ma a cui dissi sempre no, si mosse stranamente solo quando ministro ero io, con un governo di centrodestra, a guida Berlusconi». «Guarda caso – conclude – dopo quella stagione finirono le polemiche e nessuno tornò alla carica, tutti si dimenticarono di Sofri, non gliene fregò più nulla a nessuno».

I ripetuti inviti a dare corso alla richiesta di grazia, avanzati in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura, sono sempre stati respinti dal Ministro Castelli, malgrado Ciampi avesse nello stesso periodo più volte manifestato la volontà di concederla, tanto da giungere a un conflitto con il guardasigilli risolto poi dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 200 del 18 maggio 2006, ha stabilito che non spetta al Ministro della Giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento di grazia, ma esso è un libero provvedimento motu proprio del Capo dello Stato. Alla fine la grazia non fu concessa perché la sentenza fu emessa tre giorni dopo che Ciampi aveva concluso il suo mandato di Presidente della Repubblica.

 

Avvocatura Errico Novi 15 May 2022 12:06 CEST

Equo compenso, l’Ocf: «Sì alla legge senza modifiche, o si rischia»

Al Senato è piovuta una raffica di richieste, avanzate anche da professioni non ordinistiche. L’Organismo congressuale forense: «Forte preoccupazione»

Capita spesso: una volta colto un obiettivo, lo si sottovaluta. Schema che rischia di ripetersi per le professioni rispetto alla legge sul’equo compenso. Alla Camera è stato approvato un testo non esile, certo “menomato” in diversi punti, ma pure impreziosito da un vincolo più esplicito, anche per la Pa, a pagare avvocati e altre categorie nel rispetto di soglie minime conformi ai parametri ministeriali. Al Senato però è piovuta una raffica di richieste, avanzate anche da professioni non ordinistiche.

Più silenziosamente, sono tornati alla carica Confindustria e altri committenti forti: il parere negativo redatto, sulla legge, da tre accademici, tutti soci del prestigioso studio Chiomenti, è la spia più visibile di questo pressing. Ebbene, ad aver compreso che le insidie sono abbastanza temibili da sconsigliare una modifica del testo e l’inevitabile ulteriore lettura alla Camera, è l’Organismo congressuale forense. Che venerdì ha diffuso una nota in cui esprime «forte preoccupazione» per le «147 proposte di emendamento in commissione Giustizia» che «rischiano di rallentare e ostacolare l’iter per il varo della legge sull’equo compenso dei professionisti, nonostante l’appoggio dichiarato di tutte le forze politiche che già ne avevano condiviso il testo alla Camera».

In particolare, secondo il componente dell’Ocf Pierfrancesco Foschi, «è ovvio che l’approvazione di emendamenti che snaturino il testo approdato al Senato, provocherebbe un ritorno alla Camera e il concreto pericolo che la proposta di legge non veda la luce prima della fine della legislatura». Aggiunge il coordinatore dell’Ocf Sergio Paparo che «nell’ultima sessione del congresso nazionale forense, oltre il 94% dei delegati rappresentanti gli avvocati italiani ha approvato la mozione di sostegno e richiesta di approvazione del ddl sull’equo compenso». Cosicché, nota Paparo, «opinioni contrarie (vedi quella pubblicata recentemente dal Sole- 24Ore dei tre professori, partner di uno dei più grandi studi legali italiani) per quanto autorevoli, oltre a lasciare perplessità sul piano tecnico, si situano in radicale contrarietà alla volontà politica e alla sensibilità giuridica della totalità dell’avvocatura, prestando il fianco, o servendo un’insperata sponda, alla pressante azione di ostacolo che le lobbies dei contraenti più forti ( banche, assicurazioni e grandi società committenti di servizi legali e professionali) interessate da questa legge esercitano da tempo per paralizzarla, in spregio al chiaro sostegno che sino a poche ore fa tutte le forze politiche avevano proclamato e assicurato nel corso di questa legislatura».

A pensarla così è anche il presidente dell’Aiga Francesco Paolo Perchinunno, che invita a «non sottovalutare il significato effettivo della norma che estende pienamente, anche alla Pa, l’obbligo di riconoscere compensi non inferiori ai parametri: di fatto viene ristabilito il principio dei minimi scomparso 15 anni fa. La legge va approvata senza modifiche e senza esporsi a rischi insensati».

 

Carcere Damiano Aliprandi 15 May 2022 09:42 CEST

Carcere: 24 suicidi da inizio anno, l’ultimo a Foggia

Negli ultimi due anni il tasso di suicidi è in crescita. Le proposte di Antigone per controllare il fenomeno
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Secondo la redazione di Ristretti Orizzonti, siamo a 23 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Ma arriviamo a 24 con l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Foggia. Si tratta del secondo, nell’istituto stesso, nel giro di due settimane. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Secondo il documento sulla prevenzione del suicidio in carcere realizzato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è spesso una delle cause più comuni di morte in carcere.

Il rapporto Antigone 

Per capire meglio la dimensione del problema, ancora una volta bisogna ricorrere al XVIII rapporto di Antigone che parte dai dati dell’anno scorso. Seppur in leggero calo rispetto all’anno precedente, nel 2021 il numero di suicidi in carcere rimane molto alto. Secondo i dati pubblicati dal Dap, sono state 57 le persone detenute ad essersi tolte la vita. Se questo numero viene messo in relazione con le persone mediamente presenti negli istituti di pena nel corso dell’anno otteniamo il tasso di suicidi, ossia il principale indicatore per analizzare l’ampiezza del fenomeno. Nel 2021, a fronte di una presenza media di 53.758 detenuti, tale tasso si attesta a 10,6 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute. Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, Antigone osserva come nei due anni passati il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto. Purtroppo tale crescita sembra confermarsi anche nel 2022, essendo, come riportato, già numerosi i casi di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno.

Secondo i dati del Dap, nel 2021 sono decedute 148 persone detenute. Come visto, 57 sono le persone che si sono tolte la vita mentre le restanti 91 sono generalmente indicate come morti avvenute per cause naturali. I casi di suicidi sono pertanto pari al 38,5% dei decessi totali. L’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha reso noto come i detenuti – se considerati come gruppo – abbiano tassi di suicidio più elevati rispetto alla comunità in quanto non solo all’interno degli istituti di pena vi è un numero maggiore di comportamenti suicidari, ma gli individui che subiscono il regime di detenzione presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidari durante tutto il corso della loro vita.

Antigone osserva che le ragioni per cui in carcere i suicidi sono molto più frequenti, sono probabilmente dovute alla più densa presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. Oltre a fattori personali, numerosi possono essere gli elementi esterni che contribuiscono ad acuire situazioni di pregressa sofferenza soprattutto in un ambiente complesso come quello carcerario. Per questo motivo, tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate a dicembre 2021, Antigone sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato.

A tal fine, come propone Antigone, il regolamento dovrebbe prevedere in primis una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate e in qualsiasi momento. Grande attenzione va posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società. Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone.

Ai sucidi, si aggiungono i casi di autolesionismo: costituiscono un importante elemento per raccontare il clima all’interno di un istituto penitenziario, oltre che le caratteristiche della sua popolazione detenuta e delle risorse disponibili. Dalle informazioni raccolte tramite le visite effettuate da Antigone nel corso del 2021, emerge una media di 19,9 casi di autolesionismo registrati in un anno ogni 100 persone detenute.

 

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Cronaca 14 May 2022 15:48 CEST

L’ex calciatore Fabrizio Miccoli lascia il carcere di Rovigo

L’ex attaccante pugliese è stato condannato in via definitiva a tre anni e tre mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso
Fabrizio Miccoli

L’ex attaccante di Palermo e Juventus Fabrizio Miccoli è stato scarcerato e affidato in prova ai servizi sociali. L’ex calciatore è stato condannato in via definitiva a tre anni e tre mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso. La condanna era diventata irrevocabile alla fine dello scorso anno.

Miccoli è stato ritenuto colpevole di aver commissionato a Mauro Lauricella, figlio del boss palermitano del rione Kalsa Antonino detto «u scintilluni», il recupero di 20 mila euro dal titolare di una discoteca di Isola delle Femmine in provincia di Palermo, per conto dell’ex fisioterapista dei rosanero Giorgio Gasparini, il quale aveva chiesto aiuto a Miccoli. Nel corso della vicenda Miccoli finì nella bufera e venne attaccato duramente per le frasi ingiuriose nei confronti del giudice Giovanni Falcone dette da Miccoli nel corso delle conversazioni intercettate dagli inquirenti.

Fabrizio Miccoli
Esteri 13 May 2022 15:51 CEST

Twitter, Elon Musk congela l’accordo da 44 miliardi

La sospensione temporanea dipende da una verifica sul numero effettivo di account falsi sulla piattaforma. Ma il patron di Tesla precisa: “Ancora ancora impegnato nell’acquisizione”

L’accordo da 44 miliardi di dollari per l’acquisto di Twitter «è temporaneamente sospeso in attesa di dettagli che supportino il calcolo che gli account spam/fake rappresentano effettivamente meno del 5% degli utenti». A gelare gli investitori, quando oltre Oceano non è ancora l’alba, è un tweet di Elon Musk che, d’improvviso, rimette in discussione l’intesa raggiunta alla fine di aprile. Immediata la reazione degli operatori, con le azioni del social che crollano di quasi il 20% e quelle di Tesla che salgono di quasi il 6% nel pre-market. Nei giorni scorsi il visionario imprenditore di origine sudafricana aveva a più riprese avvertito che la sua priorità, non appena preso il controllo di Twitter, sarebbe stata ripulire la piattaforma da bot e account falsi.

Poco dopo il patron di Tesla e Space X ha confermato però di essere «ancora impegnato all’acquisizione» di Twitter. Il valore della compagnia è quindi tornato a crescere dopo il rinnovato impegno di Musk verso l’operazione, annunciata il mese scorso su una base di 54,2 dollari per azione, ovvero 44 miliardi di dollari. Nell’ultimo mese anche le azioni di Tesla, la società di produzione di veicoli elettrici fondata da Musk, hanno perso il 29 per cento del loro valore sul mercato. Secondo alcuni analisti citati dal «Wall Street Journal», l’uomo più ricco del mondo potrebbe aver deciso di utilizzare gli ultimi dati forniti al pubblico da Twitter per rinegoziare l’affare. Nel suo ultimo rapporto trimestrale, la compagnia social ha fatto sapere che secondo le sue stime gli account falsi o spam hanno rappresentato il 5 per cento degli utenti quotidiani attivi nello stesso periodo di riferimento. Las tessa cifra era stata tuttavia fornita nel precedente aggiornamento di febbraio.

Giustizia Giovanni M. Jacobazzi 13 May 2022 13:31 CEST

Giustizia tributaria, il Cdm tenta la “rivoluzione”

Ok del governo al ddl. Leone (Cpgt): «Non ci hanno consultati» Pardi (Cnf): «Preservare le professionalità tra le toghe in servizio»
giustizia tributaria

Semaforo verde per la “quinta magistratura”: dopo l’ordinaria, l’amministrativa, la contabile e la militare, l’Italia avrà dunque dal prossimo anno anche la magistratura tributaria professionale. È quanto ha deciso ieri il Consiglio dei ministri con il via libera allo schema di ddl in materia di “Giustizia tributaria” e di “Processo tributario”. L’articolato, che dovrà ora essere approvato dal Parlamento, modifica radicalmente il decreto legislativo 545 del 1992 sull’ordinamento della giurisdizione tributaria. Attualmente strutturata su base “onoraria”, la futura giustizia tributaria professionale sarà composta da circa 600 giudici di ruolo assunti per concorso. Per presentare domanda bisognerà essere in possesso della laurea in Giurisprudenza (inizialmente si pensava anche a quella in Economia).

L’esame consisterà in prove scritte e orali, e si dovrà dimostrare la conoscenza di una lingua straniera. Una riserva di posti sarà destinata agli attuali giudici tributari. Per coloro che provengono dalla magistratura ordinaria, in particolare, è prevista la possibilità del “transito” fino a un massimo di 100 unità, con domanda da presentare al Csm. Si tratterà, per i magistrati ordinari, di un cambio del “datore di lavoro”: dal ministero della Giustizia al Mef. Il trattamento economico resterà invariato. Fine carriera come per le altre magistrature a 70 anni, invece degli odierni 75. Sarà potenziato il ruolo del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’organo di autogoverno, con la creazione di un ufficio ispettivo e di un massimario delle sentenze tributarie.

Nel processo tributario, invece, debutterà l giudice monocratico per le cause fino ai 3mila euro. Il pg della Cassazione, poi, potrà proporre ricorso per chiedere una pronuncia su un principio di diritto in caso si tratti di un argomento nuovo, o la questione presenti particolari difficoltà interpretative. Sulla stessa linea il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione. In questo caso spetterà alle Commissioni tributarie provinciali o regionali il rinvio degli atti perché sia risolta una questione di diritto idonea alla definizione anche parziale della controversia, quando tale questione sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza, o sia particolarmente rilevante o presenti particolari difficoltà interpretative.

Prevista anche la manifestazione di interesse ai fini della trattazione per le cause giacenti presso la quale è coordinatore della Commissione tributaria: «Se va apprezzato il percorso per rendere il giudice sempre più professionale, l’introduzione della prova testimoniale scritta e il rafforzamento della conciliazione, va valutato in modo negativo l’ulteriore aumento del contributo unificato, già eccessivamente oneroso. Attualmente – ha aggiunto Pardi – tra i giudici tributari ci sono circa 700 avvocati, molti dei quali con esperienza pluridecennale. È un dato oggettivo che l’attuale formazione universitaria spesso non sia adeguata, e che occorrano anni per formare un giudice professionale competente in materie così tecniche, dai dazi doganali ad accise, imposte dirette, bonus, agevolazioni Iva. Confido si individui un percorso che consenta di sviluppare il confronto e lo scambio tra chi ha maturato esperienza e le nuove figure professionali», ha concluso il conigliere Cnf.

 

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Commenti Valter Vecellio 12 May 2022 18:22 CEST

Quando uccisero Giorgiana io c’ero, ma nessuno ancora ci dice chi sia stato a spararle

Quel 12 maggio 1977 il Partito Radicale aveva organizzato a piazza Navona un concerto, ma dal Viminale arrivò un “no”

“Eroe della sesta giornata”: così si definisce quel personaggio che si intruppa ai vincitori quando ormai il pericolo è passato, la vittoria conquistata, la lotta (nello specifico le famose cinque risorgimentali giornate della rivolta milanese contro gli austriaci), finita. Poi ci sono i “professionisti del reducismo”, spesso millantatori. Non foss’altro per anagrafiche ragioni, non possono essere reduci di nulla; e in quanto alla professione, diciamo che vanno dove li porta il cuore, a volte; o l’interesse, spesso. Categorie che spesso, come la cattiva erba finiscono col soffocare quella commestibile; moneta di pessimo conio che soppianta quella “buona”. Considerazione generale, vale per la storia in genere, e le “storie” che poi ne fanno parte. Per questo sono importanti le “memorie”; quelle che si ricavano dai diari, dalle lettere, dai memoriali; i racconti che si tramandano; poi è compito degli storici depurare i ricordi, le memorie dalle scorie che inevitabilmente contengono: come il diamante estratto: prima di diventare un prezioso gioiello, va pazientemente, sapientemente lavorato.

I rischi di chi scrive di storia sono sempre tanti: non solo la fatica di trovare le giuste fonti; immancabilmente ci si imbatte, appunto, negli “eroi della sesta giornata”, quelli che raccontano, senza esserci mai stati, con dovizia di particolari, cos’è accaduto quel giorno specifico. Chi davvero c’era, nel vederli in “esibizione”, nell’ascoltarli, non può che pensare alla fulminante battuta di Ennio Flaiano: “Quelli là, credono di essere noi”. Tocca dunque sbrigarci, noi che c’eravamo, e che ancora ci siamo; tanti, purtroppo, se ne sono andati, di loro è rimasta labilissima traccia.

Quel 12 maggio 1977, dunque: già 45 anni fa: una quasi vita… Quel giorno una studentessa romana di 19 anni appena, Giorgiana Masi, vuole trascorrere la serata in compagnia del fidanzato, e ascoltare musica. Si dirige a piazza Navona, luogo fissato per un annunciato concerto. Non ci arriverà mai. All’altezza del ponte di Garibaldi si trova coinvolta in una immotivata, brutale carica dei carabinieri. Qualcuno, dalla parte delle forze dell’ordine, esplode dei colpi di pistola, un proiettile raggiunge la ragazza alla schiena. Colpita, cade a terra, muore. Sono circa le 20 di sera. Questi, i fatti, nella cruda essenzialità.

C’è un contesto. Quello che si è scritto finora è appena una parte di un “tutto” che ancora, a quasi cinquant’anni dai fatti, attende di essere spiegato in modo soddisfacente: sotto il profilo giudiziario, politico, storico. Nel volume che raccoglie i diari dell’ambasciatore Ludovico Ortona negli anni in cui è stato Consigliere Stampa di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, alla data 16 maggio 1987, si legge: “Esce su alcuni quotidiani un attacco di Pannella a Cossiga sulle vicende dell’epoca in cui era ministro dell’Interno (Giorgiana Masi, caso Moro). Lo vedo piuttosto turbato, anche se poi si riesce a ridimensionare l’episodio dicendogli che è un attacco del solito Pannella. Ne è chiaramente dispiaciuto”. Indicativo quel “si riesce a ridimensionare l’episodio”; sarebbe interessante sapere “chi”, ha ridimensionato; “come” ha ridimensionato; quanto al “perché” lo si intuisce. C’è quel “dispiaciuto…”: il presidente della Repubblica a cui Pannella rimprovera il ruolo giocato sulle vicende Masi e Moro, si “dispiace”. Crediamoci. Ma limitarsi a un “dispiacere” è davvero poca cosa. Ben altro che il dispiacere, per quei due tragici eventi che sono alla base della polemica accesa da Pannella. Si torni, ora al quel 12 maggio 1977.

Il Partito Radicale convoca a piazza Navona un concerto. Si festeggia l’anniversario della vittoria del NO all’abrogazione della legge sul divorzio, e si raccolgono le firme per altri referendum abrogativi di legge fasciste, autoritarie, liberticide. Dal ministero dell’Interno, “governato” allora da Cossiga, arriva un NO: manifestazione vietata. Quale sia il timore che si nutre nelle inutilmente austere stanze del palazzone progettato dall’architetto Manfredo Manfredi nel 1911, non è dato sapere. Mai i radicali sono stati un problema per quel che riguarda l’ordine pubblico. Perché quell’assurdo divieto? E cosa si “prepara”, cosa nasconde, sottende quel NO improvviso, a manifestazione già convocata? Naturalmente nessuno sospetta che si stia preparando quello che poi accadrà. Ingenuità? Forse, ma col senno del dopo.

Come che sia, quel giorno Roma è in stato d’assedio: mancano solo i carri armati; per il resto, c’è tutto: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, caschi, scudi, lacrimogeni, fucili usati come sfollagente; e tanti agenti in borghese, travestiti da autonomi: rivoltella in pugno, spranghe in mano: infiltrati tra i manifestanti: ore e ore di provocazioni, aggressioni, botte, arresti; si spara ad altezza d’uomo, e non per legittima difesa, sia chiaro. Gli incidenti cominciano alle 14, vicino al Senato; coinvolgono ragazzi, turisti, passanti. Calci, pugni, sputi ai parlamentari che pur si qualificano come tali, e anzi, magari li si aggredisce con maggiore gusto e cura. Di questo, chi scrive, è diretto testimone e vittima: conservo ancora con somma cura la giacca di renna dilaniata dai carabinieri; e una istantanea che mi “fissa” mentre sono malmenato; la ritroverò pubblicata sulla tedesca “Stern”. La didascalia parla di “autonomo milanese” durante non precisati scontri (a prova del fatto che la “precisione” non è solo del giornalismo italiano).

Gli scontri si allargano a macchia d’olio, tutto il centro città è coinvolto in questa programmata follia: fino a Trastevere e oltre, una vera caccia all’uomo. A ponte Garibaldi, Giorgiana è colpita alle spalle, muore. Nessun agente o carabiniere, in divisa o in borghese ha sparato, dice il sottosegretario agli Interni Nicola Lettieri, subito smentito dai fatti. “Fuoco amico”, insinua Cossiga. “Amico” di chi? Non certo di Giorgiana, colpita alle spalle, mentre cerca di fuggire. E’ tutto documentato, nel libro bianco, le testimonianze, le fotografie, i filmati che il Partito Radicale diffonde poche ore dopo i “fatti”. Una documentazione inoppugnabile, mai smentita. Uno straordinario documento, il racconto di una strage cercata e voluta; e più che mai si può citare l’Elias Canetti de La provincia dell’uomo: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”.

Chi ha sparato a Giorgiana e l’ha uccisa è uno dei tanti misteri italiani. Tutti ricordano la foto di Giovanni Santone, il poliziotto in borghese, maglione bianco con una banda scura, pistola in mano, spranga bianca nell’altra, borsa di Tolfa a tracolla (per la carta igienica, racconterà poi); ma la prova regina, la testimonianza fondamentale è un’altra: un video girato in “super 8” da una signora che abita in piazza della Cancelleria in cui si vedono chiaramente due poliziotti in divisa, nascosti dietro le colonne, che estraggono la pistola dalla fondina e sparano ad altezza uomo. Quelle immagini smentiscono clamorosamente quanto detto dal sottosegretario Lettieri in Parlamento: “Le forze di polizia non fecero uso di armi da fuoco”. Si cercava il morto. Si voleva il morto. Purtroppo il morto c’è stato. Questi i fatti. Vissuti e raccontati da chi ha vissuto le “cinque giornate”; e ora ascolta con amarezza divertita i racconti di chi è accorso il sesto giorno.

Intervista Simona Musco 12 May 2022 12:00 CEST

«In tribunale la violenza non sempre viene capita: così si è vittime due volte»

La senatrice Valeria Valente: «Indagando sul fenomeno abbiamo compreso che nei processi civili non solo la violenza non viene minimamente letta, ma che ciò rischia di essere presupposto per un’ulteriore vittimizzazione della donna che ha subito violenza”»
Vittoria Valente

«Il tema della violenza contro la donna, nei processi civili, finisce per non essere preso in considerazione. E questo, principalmente, sulla base di una vittimizzazione secondaria, sul piano procedurale e processuale, che diventa decisiva nella valutazione di merito del giudice». A spiegarlo è Valeria Valente, senatrice del Pd e presidente della Commissione Femminicidio, che domani, al Senato, presenterà la relazione sulla vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale. Un fenomeno purtroppo invisibile, che finisce per falsare i dati sulla violenza e sugli affidi, con conseguenze spesso devastanti sul futuro delle donne e dei minori.

Senatrice, può spiegarci l’importanza di questa relazione?

È stata una delle più impegnative per la Commissione e ha richiesto un lavoro di quasi due anni. Molto spesso si parla di violenza sulle donne con quasi istintiva, naturale attenzione solo alla dimensione del penale. Ma c’è anche una dimensione civilistica, con conseguenze importanti in termini di comprensione e conoscenza del fenomeno. E forse quella che è conosciuta meno, indagata meno, affrontata di meno rischia di essere quella con un maggiore e drammatico impatto sulla vita delle donne vittime di violenza.

Da che punto di vista?

Innanzitutto perché molto spesso le donne che subiscono violenza, prima ancora di arrivare alla consapevolezza della denuncia – accade solo nel 15% dei casi, mentre il 64% delle donne non ne parla nemmeno con un amico – arrivano alla volontà di separarsi dall’uomo violento e quindi avviano un procedimento civile di separazione. O almeno ci provano.

Il tema della violenza trova uno spazio nella dimensione civilistica del fenomeno?

Indagando sul fenomeno abbiamo compreso che non solo la violenza non viene minimamente letta, ma che ciò rischia di essere presupposto per un’ulteriore vittimizzazione della donna che ha subito violenza. La violenza non viene verbalizzata: non è possibile che questa parola non compaia quasi mai e che venga utilizzata la parola conflitto come sinonimo. Sono due cose profondamente diverse. Sul fronte processuale, la donna viene molto spesso ascoltata in presenza dell’uomo – sia in sede di separazione civile sia in sede di procedimenti relativi alla responsabilità genitoriale – anche dopo aver fatto allegazioni di violenza, cosa che, stando alla nostra indagine, accade nel 34% dei casi. Ed è evidente che, avendo di fronte chi le ha esercitato violenza, sarà condizionata nel racconto.

Inoltre, nel 95% dei casi non vengono richiesti ulteriori atti dal giudice, non vengono utilizzate tutte le procedure richieste, ad esempio viene trovata comunque una conciliazione e il minore non viene ascoltato direttamente in maniera separata. La violenza, insomma, non viene indagata e quindi, sostanzialmente, non viene considerata. E, cosa ancora più grave, non viene considerata come un fattore di cui tenere conto anche nell’adozione dei provvedimenti successivi, ad esempio quello relativo all’affido dei minori, finendo per favorire il principio di bigenitorialità a scapito dell’interesse del minore. E si finisce per colpevolizzare la donna se il bambino rifiuta di vedere il padre violento.

Questo poi falsa anche i dati relativi agli affidi?

Certo. L’articolo 31 della Convenzione di Istanbul, che per noi è un faro nella lotta alla violenza, ci dice che ogni volta che ci troviamo di fronte a un uomo violento vanno messi in sicurezza madre e minore. Se noi leggessimo la violenza e applicassimo la Convenzione non ci potremmo mai trovare di fronte al caso di un minore affidato ad un padre violento o a entrambi i genitori, in casa famiglia o agli assistenti sociali con lo scopo di ricostruire il “sano” rapporto sia con la madre sia con il padre. Credo sia giusto che i bambini mantengano un equilibrato rapporto con entrambi i genitori, ma non è un assunto che può stare al di sopra dell’interesse concreto del minore. Lo diciamo da tempo, lo dice il Grevio, la Convenzione di Istanbul – che è legge dello Stato – e, da ultimo, la Cassazione: se c’è violenza, il bambino deve essere tenuto a distanza dal padre, è un obbligo, non ci sono margini di valutazione di opportunità. E la Cassazione, nelle ultime due pronunce, si spinge oltre, dicendoci che il superiore interesse del minore prevale anche sulla bigenitorialità, che non deve essere letta come un diritto dei genitori, ma come un interesse del minore. E interesse del minore è soprattutto la sua sicurezza.

Perché c’è così tanta difficoltà a riconoscere la violenza, anche in un’aula di tribunale?

Ci sono due ragioni: la prima è che manca una specializzazione adeguata. I giudici civili hanno sempre ritenuto la violenza appannaggio del penale e c’è poco dialogo con i colleghi di quell’ambito. Molto poco si chiede di assumere gli atti dal penale, nonostante il Codice rosso e qualche norma ulteriore nella riforma del processo civile. Si sottovaluta il tema. Stessa cosa nel minorile, dove alberga anche un’altra convinzione: ci sentiamo molto spesso dire che se l’uomo è violento solo nei confronti della madre può comunque essere un buon padre. Ed è una convinzione di carattere culturale, che noi non condividiamo, tant’è che ho presentato un disegno di legge in questo senso.

La seconda è una questione culturale: i pregiudizi, gli stereotipi, il modo in cui si legge la dinamica della relazione di coppia, la suddivisione in ruoli. Ma c’è anche un altro fattore: spesso il giudice delega la comprensione di una vicenda alla consulenza tecnica e le relazioni di psicologi e assistenti sociali diventano l’unico elemento sul quale costruiscono la pronuncia finale. Ma questi professionisti possono offrire il punto di vista solo su alcuni aspetti, mentre il giudice deve accertare i fatti e questa attività non può essere limitata solo a una perizia. Bisogna svolgere attività di accertamento. Alcune modifiche sono già state ottenute con la riforma del processo civile, ma manca ancora qualcosa. E sono convinta che si possa chiedere anche al giudice civile una sorta di accertamento incidentale temporaneo della violenza, veloce e rapido, ma precondizione di un atteggiamento diverso nella procedura.

La vittimizzazione secondaria però c’è anche fuori dalle aule del tribunale. Come si abbatte?

Mi sono interrogata tante volte. Inasprire le pene porta consenso ai politici, ma non risolve il problema, altrimenti i dati della violenza non sarebbero quelli che sono. Le agenzie educative possono fare sicuramente molto di più: le università, ad esempio, devono istituire delle ore curriculari dedicate alla lettura della violenza. Ma il tema è di una società intera. Quando si sono combattute le mafie del 1992 c’è stata un’assunzione di responsabilità della collettività, che si è schierata a favore delle vittime e contro i mafiosi. Dovrebbe accadere lo stesso anche adesso: schierarsi a favore delle donne e contro gli autori di violenza. Ma ancora oggi oltre la metà degli italiani pensa che una donna che subisce violenza se la sia cercata, in qualche modo. Per questo io direi che, oltre ad aiutare di più e meglio i centri antiviolenza, che hanno sempre poche risorse, è necessario fare campagne di sensibilizzazione che facciano capire che oggi una delle principali cause di morte per donne in una certa fascia d’età è essere nate donne. E non è accettabile.

Vittoria Valente
Giustizia Errico Novi 12 May 2022 10:08 CEST

«Ai processi serve efficienza», Pignatone e quel sottile dissenso sulla protesta dei colleghi

In un’intervista alla Stampa l’ex procuratore capo di Roma ha spiegato che nel ddl Cartabia ci sono elementi di novità utili al sistema giustizia
Pignatone

Giuseppe Pignatone è una voce di peso nel panorama della giustizia. E ora che non esercita più le funzioni nella magistratura italiana -presiede il Tribunale vaticano – è forse anche più libero nelle proprie analisi. Le propone su Repubblica e sulla Stampa.

Come ha fatto ieri, dalle colonne del quotidiano torinese: ha parlato di efficienza del servizio giustizia. Ha ricordato che, tra i requisiti di una giustizia che funziona, va annoverata la prevedibilità delle decisioni, la coerenza interna del sistema. Non è un richiamo insignificante. Anche perché Pignatone lo collega ai poteri dei “capi” negli uffici giudiziari, anche di coloro che, come ha fatto lui a Roma, guidano una Procura. Segnala alcuni passaggi qualitativamente utili della riforma ordinamentale, la famigerata riforma Cartabia contro cui l’Anm ha deciso di scioperare. E ricorda per esempio gli “specifici obblighi, sanzionati disciplinarmente, cui dovranno attenersi i dirigenti e anche i singoli magistrati”, in particolare qualora non si osservino determinati princìpi organizzativi.

Ebbene: si tratta di aspetti elencati fra quelli per i quali il “sindacato” delle toghe ha deciso di protestare. E anche quel richiamo di Pignatone al “contrasto fra la libertà di giudizio dei singoli magistrati e l’esigenza di assicurare uniformità e prevedibilità delle decisioni in casi seriali o almeno analoghi” non è così estraneo a un incrocio con la norma più odiata dall’Anm: il passaggio della riforma sul Csm che introduce il cosiddetto “fascicolo di valutazione”, in cui si dovrebbero riportare le “gravi anomalie” nelle statistiche sugli esiti dei provvedimenti assunti da ciascun magistrato.

Insomma, l’ex procuratore di Roma, con il proprio consueto garbo, con la diplomazia di chi ha praticato da maestro la politica giudiziaria, avverte i colleghi che alcuni dei motivi richiamati nello sciopero sono poco condivisibili. E non è la sola voce autorevole della magistratura ad assumere una posizione del genere. Si potrebbero citare Armando Spataro, Edmondo Bruti Liberati, il presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli, l’ex presidente Anm Pasquale Grasso. Che vuol dire? Che lo scetticismo espresso sullo sciopero da figure del genere rafforza un’impressione: l’Anm sembra protestare più che altro per prendere le misure alla nuova politica. Capire se fa sul serio, se intende ingaggiare un conflitto di lunga durata con la magistratura. Perché una cosa è certa: una politica così spregiudicata nel rapporto con le toghe non si vedeva da tutt’altre epoche della storia repubblicana. E l’interlocutore prova evidentemente a organizzare una sfida che non aveva messo in programma.

Pignatone
Avvocatura 11 May 2022 17:25 CEST

Ascensori fuori uso al tribunale di Milano, gli avvocati: «Situazione vergognosa»

La denuncia: «Questa mattina per salire al settimo piano dove avevo in programma un incontro con un magistrato di Sorveglianza ho aspettato 20 minuti l’unico funzionante e non potevo andarci a piedi perché con me c’era un cliente con un grave problema di salute»

Da un paio di giorni nel tribunale di Milano funziona solo un ascensore su otto, ma la situazione è critica ormai da diverso da tempo. Tanto da avere esasperato gli addetti ai lavori e chi transita nel voluminoso palazzo di epoca fascista.

«Quello che accade è vergognoso – dice all’Agi l’avvocato Beatrice Saldarini -. Questa mattina per salire al settimo piano dove avevo in programma un incontro con un magistrato di Sorveglianza ho aspettato 20 minuti l’unico funzionante e non potevo andarci a piedi perché con me c’era un cliente con un grave problema di salute. Da tempo lavoriamo in condizioni sotto il livello della dignità, noi avvocati così come il personale che lavora in tribunale e tutti gli utenti, allibiti dalle condizioni in cui si trova il palazzo».

Valentina Alberta, legale del direttivo della Camera Penale, spiega che «la manutenzione è in capo al Ministero della Giustizia» ma si chiede «perché non sia possibile stipulare un contratto che possa risolvere i problemi di manutenzione ordinaria in modo veloce senza dover richiedere l’intervento a Roma. So che la Corte d’Appello si sta interessando alla vicenda ed è determinata a risolvere la questione. Non si può non pensare a chi non è nelle condizioni fisiche di fare le scale». «Quattro ascensori sono fermi da tempo – precisa l’avvocato Francesca Beretta -, gli altri vanno a singhiozzo. È una situazione insostenibile». Su due degli ascensori fermi c’è un cartello che avverte che è in corso una manutenzione.

Commenti 11 May 2022 12:00 CEST

Ma dietro la fuga dalla professione non ci sono solo motivi economici

Oltre alle difficoltà dei giovani, pesa la perdita di prestigio dei magistrati che penalizza anche la classe forense
avvocati fuga professione

di Antonella Frontini (PRESIDENTE UNAEP)

La professione forense perde appeal non da oggi ed è riduttivo circoscrivere la “fuga dalla professione”, o l’intenzione di fuggire, al solo dato economico e al conseguente richiamo del concorso pubblico, oggi reperibile in grande quantità. Quali allora le cause dell’arretramento progressivo della professione forense fra le professioni d’eccellenza? E qui ce n’è per tutti. Dapprima fu l’introduzione delle facoltà a numero chiuso, lasciando a se stesse quelle a libero accesso, fra cui giurisprudenza: si è passati dalla scelta della facoltà, al “rimedio” per fare l’Università. Nello specifico, dal “sentirsi” avvocato (per scelta, dunque), al fare l’avvocato  per necessità). E qui si incontra il primo scoglio: fare l’avvocato non è un mestiere come un altro; è una missione, una passione e, se si è scelta questa professione, la si ama nella buona e nella cattiva sorte. Se la si subisce è come un parcheggio, da cui si decide di entrare e uscire a seconda delle necessità.

Si pensi all’Ufficio del processo, ad esempio, ove tanti avvocati (forse più di nome che di fatto) hanno trovato rifugio, passando dalla difesa dei diritti ( forse) alla raccolta dei documenti dei processi e, nel migliore dei casi, alla predisposizione delle bozze di decisione. In questo caso è difficile pensare che la ‘ missione forense’ svolti radicalmente nella direzione del “impiegato forense”. A meno che non si introduca la figura del “paralegal” come negli ordinamenti anglosassoni.

E qui entriamo nel secondo argomento. È noto che da svariati anni, complice una legge forense figlia del compromesso dei tempi, esistono studi legali che scimmiottano le legal firm anglosassoni: grossi studi legali con sedi anche all’estero, che operano in regime di monocommittenza. Tuttavia una monocommittenza all’italiana, ove spiccano i dati negativi e sfumano quelli positivi. Queste realtà reperiscono avvocati- collaboratori a tempo pieno, esiguamente pagati in regime Iva, con fatture a cadenza mensile (modello retribuzione), ovviamente senza compartecipazione ai compensi professionali, generalmente fra i giovani neo avvocati, più vulnerabili e più sfruttabili.

Per questi giovani colleghi non vi sono le garanzie del lavoro dipendente, né i vantaggi della libera professione forense. È la nuova tipologia dello “schiavismo del nuovo millennio”‘, come definita on line, ove sfruttamento e “mai- una- gioia” finiscono per demotivare giovani colleghi anziché investire su di loro. Tutto il contrario dell’originale anglosassone. Ovviamente non si discutono le scelte personali, tutte degne di rispetto, ma avvilendo i giovani si comprime quella freschezza ed energia che caratterizza la missione dell’avvocato, il quale giura, perché ci crede, di difendere i diritti nell’interesse superiore della giustizia.

La giustizia. E qui veniamo a un ulteriore punto nevralgico. Da un lato la sfiducia del cittadino nella giustizia come istituzione, dall’altro lato l’atteggiamento di certi magistrati nei confronti degli avvocati che, lungi dall’essere ritenuti “pari”, molto spesso raggiungono livelli di irrispettosità di difficile giustificazione, come si evince dalla semplice lettura dei giornali.

Elementi che congiuntamente, o singolarmente, danneggiano anche la figura dell’avvocato, che nel perdere prestigio trascina con sé l’intero ‘ cast’, in un rapporto bidirezionale. Di ciò si dovrebbe avere maggior contezza: se la magistratura perde prestigio, parimenti lo perde la professione forense, se perde prestigio la professione forense egualmente ne esce ammaccata la giustizia nel suo complesso, in un rapporto osmotico strettissimo.

Da qui se ne uscirebbe solo con l’aggiornamento della nostra Costituzione, inserendo in chiaro il capo relativo alla difesa professionale dei diritti, la cui mera enunciazione di principio non è (più) sufficiente come lo fu nel 1946, ove l’avvocatura era la professione più rispettata e ambita fra quelle ordinamentali.

Ma la giustizia ha anche un’altra grande responsabilità, che gioca un ruolo enormemente rilevante nella mortificazione della professione forense e, quindi, nell’intenzione di “fuga”. Nell’offrire talvolta assist spettacolari alla pubblica amministrazione, la magistratura non si rende conto del danno “pubblico” che certe decisioni comportano: si pensi alle recenti decisioni con cui taluni giudici – lautamente pagati hanno stabilito che l’avvocato può lavorare anche gratis.

Questo, in estrema sintesi, il principio fissato nell’aver ritenuto legittimo il bando di una P. A. che richiedeva la collaborazione rigorosamente gratuita di avvocati esperti. Con buona pace dell’adeguatezza della retribuzione per il lavoro svolto, della legge sull’equo compenso, del decreto ministeriale e delle raccomandazioni euro unitarie. Con questi presupposti è comprensibile che anche i più innamorati della professione forense prendano atto della fine di un idillio e decidano di appendere la toga al chiodo.

avvocati fuga professione
Commenti Francesco Damato 10 May 2022 13:30 CEST

Aldo Moro oggi sarebbe a disagio: per lui la democrazia era dialogo non muscoli

Lo ha sottolineato Marco Follini, in un suo saggio sullo Statista: «La politica non era mai un evento, era un processo. Era un arabesco, non una freccia»
Aldo Moro

Anche nel quarantaquattresimo anniversario della sua tragica morte – ancora più tragica, come vedremo, di quanto molti hanno a lungo ritenuto credendo alle bugie dei brigatisi rossi che lo avevano assassinato il 9 maggio 1978- si è provato da qualche parte a immaginare come Aldo Moro avrebbe reagito ai problemi e alle emergenze dei nostri tempi: lui che di emergenze aveva gestito da regista della Dc quella del 1976. Che era stata di ordine economico, politico e di sicurezza per il fenomeno del terrorismo, nero e poi anche rosso, affacciatosi in Italia con la strage di Piazza Fontana nel 1969.

L’ex senatore Marco Follini, già vice presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi in sofferenza reciproca, durata peraltro meno di sei mesi, fra il 2 dicembre 2004 e il 15 aprile 2005, un democristiano doc che su Moro ha scritto recentemente un saggio toccante, non ha certamente avuto torto a rispondere così pochi giorni fa, in una intervista a chi gli chiedeva che cosa rimanesse oggi del leader da lui conosciuto e molto apprezzato: «Moro sarebbe fortemente a disagio perché tutta la sua costruzione politica era legata a un’idea che oggi non ha più libero corso in questo Paese. Moro era consapevole che la democrazia è il dialogo con gli altri e non il mettersi davanti allo specchio per mostrare i muscoli. Come dico nel mio libro, dal suo punto di vista la politica non era mai un evento. Era un processo. Era un arabesco, non una freccia». Una freccia a dir poco, aggiungerei pensando all’immagine di “sangue e merda” coniata tanti anni fa dall’ex ministro socialista Rino Fornica.

Abituato a reagire alle più feroci critiche di volta in volta espresse nei suoi riguardi su qualche giornale ostile al centrosinistra – da lui perseguito da segretario della Dc e infine realizzato in modo organico da presidente del Consiglio nel 1963- chiedendo al suo fidato portavoce Corrado Guerzoni di fare escludere il feroce giornale di turno dalla “mazzetta” dei quotidiani che gli veniva recapitata a casa di prima mattina, Moro avrebbe finito oggi, in qualsiasi postazione politica o istituzionale gli fosse capitato di trovarsi, senza più giornali da sfogliare. Nonostante la circostanza reale ricordata da Follini di un uomo che “non amava gli americani” ricambiato, ma “a Washington con un punto di ostilità in più”, risultatagli forse fatale nella drammatica prigionia nell’appartamento in cui i sequestratori lo tennero rinchiuso prima di ucciderlo, mi permetto di presumere che Moro non avrebbe risparmiato oggi agli americani la “comprensione” ripetutamente espressa loro da presidente del Consiglio all’epoca della guerra in Vietnam.

Che russi e cinesi da una parte e americani dall’altra, ma questi ultimi direttamente, con tanto di truppe al Sud e bombardamenti al Nord, condussero a lungo: altro che l’Ucraina di oggi, dove di truppe straniere ci sono solo quelle russe di invasione e occupazione contrastate dagli aggrediti con aiuti anche militari degli Stati Uniti e altri paesi occidentali. Fra i quali c’è l’Italia di Sergio Mattarella al Quirinale, moroteo come il padre Bernardo e il fratello Piersanti, e del tecnico Mario Draghi a Palazzo Chigi, forte più del prestigio internazionale guadagnatosi soprattutto alla presidenza della Banca Centrale Europea che di un’appartenenza politica, per quanto configurabile come un liberalsocialista decisamente atlantista.

Vi avevo promesso all’inizio di rivelarvi le circostanze della morte di Moro ancora più tragiche di quelle emerse dalle bugie dei suoi assassini. Che dissero di averlo trattato con rispetto anche nella morte, affascinati a loro modo dalla personalità che avevano sequestrato sterminandone la scorta solo per esigenze, diciamo così, di lavoro. Leggete qui ciò che delle modalità della morte dell’ostaggio accertate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha recentemente raccontato l’ex ministro del Pd Giuseppe Fioroni, che l’ha presieduta: «Abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione». Non un colpo di grazia? chiede l’intervistatore in base al racconto appunto dei brigatisti rossi. «Al contrario. Colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia perché non morisse», rivela Fioroni concludendo: «Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse», più ancora degli agenti della scorta freddati 55 giorni prima nella mattanza di via Fani, a Roma.

Aldo Moro
ildubbio Riccardo Tripepi 10 May 2022 12:00 CEST

Centrodestra in pieno clima del dispetto: Salvini non invita Meloni al convegno leghista

Intanto in Sicilia, Gianfranco Miccichè ha dato del «fascista» all’attuale presidente della Giunta regionale Nello Musumeci. E poi ha ritrattato…
centrodestra salvini meloni

L’accordo trovato sul nome di Roberto Lagalla a Palermo non ha, fin qui, sortito gli effetti sperati. Le tensioni nel centrodestra sono addirittura più forti di prima. Il passo indietro di Lega e Fi che sostenevano la candidatura di Francesco Cascio, parallelamente alla rinuncia da parte di FdI al nome di Carolina Varchi, hanno prodotto una convergenza dell’intera coalizione sul nome dell’ex assessore regionale siciliano all’Istruzione che aveva cominciato da civico, seppure con la benedizione dell’Udc, la sua campagna elettorale.

Il passo indietro di FdI era stato letto come propedeutico allo sblocco delle trattative tra i partiti in vista delle successive elezioni regionali. Gli uomini di Giorgia Meloni vogliono la ricandidatura del governatore uscente Nello Musumeci che aveva incontrato, però, molte resistenze sia da parte della Lega che dalla componente di Forza Italia legata Gianfranco Miccichè.

Proprio quest’ultimo, subito dopo l’accordo raggiunto a Palermo, si è reso protagonista, di nuovo, con un’intervista alla Stampa in cui ha definito «fascista» Nello Musumeci insieme ai vertici del partito di Giorgia Meloni, confermando l’impossibilità di una sua ricandidatura. Le dichiarazioni di Miccichè, ovviamente, hanno innescato un vespaio di polemiche e rischiato di far saltare definitivamente il banco. Tanto che il presidente dell’Ars si è trovato costretto ad una smentita ufficiale, dopo aver contattato telefonicamente i vertici di FdI per chiarire i termini dell’accaduto. Miccichè ha successivamente smentito quantomeno i toni del colloquio con il quotidiano. «Non ho mai usato questi toni nei loro confronti, né fatto queste affermazioni – ha detto Miccichè all’Agi – Sono toni esageratissimi, sinceramente non posso che chiedere scusa a chi si è sentito offeso, certo non era nelle mie intenzioni. Il fatto che io non consideri Musumeci il miglior candidato è un conto, ma questi toni non mi appartengono e non mi sarei mai permesso di utilizzarli».

Le dichiarazioni, poi ritrattate, da Miccichè, tuttavia, continuano ad infiammare il dibattito e hanno provocato anche qualche imbarazzo nei vertici siciliani di Forza Italia.

Ma non è soltanto la Sicilia ad alimentare le tensioni all’interno del centrodestra. L’accordo di Palermo non ha avuto il seguito che ci si poteva aspettare anche negli altri centri principali chiamati al voto il prossimo 12 giugno. A Verona, ad esempio, è ufficiale la frattura consumatasi all’interno del centrodestra con FdI e Lega che sosterranno il sindaco uscente Federico Sboarina, mentre Forza Italia ha annunciato ufficialmente il proprio sostegno all’ex leghista Flavio Tosi. Il caos regna anche a Catanzaro dove Lega e Fi sono, ormai da qualche settimana, in campagna elettorale con il candidato Valerio Donato, mentre FdI si trova nei guai dopo avere annunciato la candidatura autonoma di Rino Colace. A distanza di 48 ore dall’annuncio ufficiale lo stesso Colace ha rinunciato alla candidatura per «questioni professionali e personali impreviste».

Ma i venti di guerra all’interno della coalizione soffiano anche a livelli più alti. Dopo la bagarre sul mancato invito di Matteo Salvini alla conferenza programmatica di FdI a Milano, la Lega non ha perso l’occasione per restituire immediatamente la pariglia ai meloniani. Per il 14 maggio è fissato l’appuntamento del Carroccio a Roma “L’Italia che vogliamo” per il quale sono già stati distribuiti gli inviti. E tra questi non ne risultano inviati a FdI, mentre dovrebbe partecipare il ministro di Forza Italia agli Affari Regionali, Mariastella Gelmini.

Senza dimenticare, inoltre, che la coalizione è spaccata anche sui referendum sulla giustizia. FdI si è da tempo sfilata dai quesiti su custodia cautelare e abrogazione della legge Severino, mentre Forza Italia si è fin qui completamente disinteressata dalla campagna elettorale. L’unico a crederci, almeno formalmente, è Matteo Salvini che rischia di restare con il cerino in mano se dovesse realizzarsi lo scenario, dato per assai probabile, del mancato raggiungimento del quorum. Un clima di tensione generale, dunque, che continua a far slittare il vertice dei big dei partiti che viene rinviato costantemente da diverse settimane per evitare il peggio. E le amministrative sembrano essere soltanto la punta dell’iceberg che, in realtà, cela la lotta senza quartiere tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni per la leadership della coalizione e per la guida del futuro governo che sarà disegnato dalle prossime elezioni politiche.

centrodestra salvini meloni
Carcere Damiano Aliprandi 10 May 2022 09:29 CEST

Antigone: «È arrivata l’ora di superare le misure di sicurezza per gli internati»

Dal rapporto dell’associazione emerge che, al 28 febbraio 2022, sono 280 nelle carceri italiane, che dovrebbero essere assegnati a casa di lavoro o a colonia agricola, molti con problemi psichiatrici

«È davvero arrivato il momento di ripensare la loro presenza nell’ordinamento italiano», così conclude Antigone nel suo XVIII rapporto, più specificatamente il capitolo dedicato alla figura degli internati nelle cosiddette case lavoro o colone agricole, ma che non si differenziano assolutamente dalla detenzione.

L’INTERNATO HA FINITO DI SCONTARE LA PENA MA È RITENUTO “SOCIALMENTE PERICOLOSO”

Ricordiamo che l’internato è colui che ha finito di scontare la pena detentiva, ma raggiunto da una misura di sicurezza, perché ritenuto “socialmente pericoloso”. Come sottolinea Antigone, oltre alle case circondariali e alle case di reclusione, la legge prevede l’esistenza di case di lavoro e colonie agricole. Si stratta di istituti nei quali le persone internate «eseguono le misure di sicurezza detentive previste al numero 1 comma 1 dell’art. 215 c. p. ovvero, appunto, l’assegnazione a una colonia agricola o ad una casa di lavoro». Le due misure si differenziano esclusivamente per il genere di lavoro che dovrebbe caratterizzare la permanenza nell’istituto, se di natura agricola oppure industriale o artigianale.

QUESTE MISURE DI SICUREZZA RISALGONO AL CODICE ROCCO

Il sistema delle misure di sicurezza fu inserito dal guardasigilli fascista Alfredo Rocco, come egli stesso spiega nella relazione al codice penale del 1930, per «apprestare più adeguati mezzi legislativi di lotta contro la delinquenza, aumentata specialmente nel periodo postbellico in conseguenza dei profondi rivolgimenti psicologici e morali, economici, sociali e politici, prodottisi negli individui e nella collettività in conseguenza della grande guerra vittoriosa». In particolare, «i mezzi puramente repressivi e propriamente penali si erano rivelati insufficienti a combattere particolarmente i gravi e preoccupanti fenomeni della delinquenza abituale, della delinquenza minorile e della delinquenza degli infermi di mente pericolosi. Per rimediare a questa insufficienza il nuovo codice penale ha non solo rinvigorito il sistema delle pene principali ed accessorie, ma ha altresì introdotto il sistema delle misure di sicurezza».

QUESTI PERIODI DI DETENZIONE SI AGGIUNGONO ALLA PENA GIÀ SCONTATA

La parte che ci riguarda è il riferimento alla delinquenza abituale. L’art. 216 c. p. assegna a una colonia agricola o a una casa di lavoro sostanzialmente coloro che sono stati giudicati essere delinquenti abituali, professionali o per tendenza (essendo gli altri casi desueti o quasi inesistenti). A differenza delle misure di sicurezza detentive psichiatriche, che vengono disposte al posto della pena per gli incapaci di intendere e di volere, questi periodi di detenzione si aggiungono invece alla pena già scontata.

Prima del 2014, il rischio di chi è internato era davvero quello di scontare una pena perpetua. Veniva definito non a caso “ergastolo bianco”. A far fronte a questo problema, ai sensi dell’art. 1 comma 1ter del D. L. 31 marzo 2014 n. 52 così come convertito in legge 30 maggio 2014 n. 81, si prevede che «le misure di sicurezza detentive provvisorie o definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima».

LA DENUNCIA DI ANTIGONE: CASE DI LAVORO SIMILI ALLE SEZIONI CARCERARIE

Antigone denuncia che è difficile non vedere nelle misure di sicurezza della casa di lavoro e della colonia agricola una semplice duplicazione della pena detentiva, tanto dal punto di vista teorico che concreto. Spostandoci solo sul piano concreto, Antigone denuncia che «le case di lavoro sono in tutto simili a sezioni carcerarie ordinarie. Come in queste ultime, il lavoro tende a mancare». Tra l’altro – sottolinea l’associazione – la riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 ha cancellato il vecchio comma 3 dell’art. 20, secondo il quale il lavoro era «obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro». Anche il fascista Rocco, nella già citata relazione, si arrampica sugli specchi nel difendere «la diversità profonda tra pena e misura di sicurezza». Oggi l’internamento in casa di lavoro o in colonia agricola, presentando solamente un contenuto di tipo afflittivo, equivale a una duplicazione della pena, in violazione del principio del ne bis in idem e già censurato dalla Cedu nella sentenza M. c. Germania del 17 dicembre 2009.

CON LA CHIUSURA DEGLI OPG NEL 2015 SONO DIMINUITI NOTEVOLMENTE

Come ha anche riportato Il Dubbio, con la sentenza n. 197 del 21 ottobre 2021, la Consulta ha confermato la costituzionalità dell’applicazione anche agli internati del 41- bis, purché le restrizioni previste consentano di lavorare  la Cassazione aveva sollevato questione di legittimità sottolineando tra l’altro come le limitazioni del regime non permetterebbero di dimostrare alcuna evoluzione personale, andando inevitabilmente incontro a ulteriori proroghe della misura). Alla fine del 2021 – rivela Antigone – erano 4 gli internati sottoposti al 41- bis, tutti nel carcere di Tolmezzo.

Il rapporto snocciola i dati. Al 28 febbraio 2022, erano 280 gli internati nelle carceri italiane, lo 0,5% del totale dei presenti. Di questi, 61 erano stranieri, il 21,8% del totale degli internati, una percentuale significativamente inferiore a quella generale (gli stranieri costituiscono il 31,3% della popolazione detenuta complessiva), a segno dell’inferiore abitualità nel reato e pericolosità sociale della componente straniera. Negli ultimi trent’anni circa, la presenza di internati vede due fasi quantitative distinte. Prima del 2015, l’oscillazione varia approssimativamente tra le 1.000 e le 1.500 unità, con percentuali che vanno dall’ 1,8% al 4%, anche a causa dell’oscillare dei numeri complessivi della detenzione.

Dopo lo spartiacque del 2015, invece, si rimane sempre al di sotto dei 350 internati, con percentuali di 0,5% o 0,6%. Antigone spiega che ciò è dovuto dalla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) avvenuta in via definitiva il 31 marzo 2015, data in cui si trovavano ancora 805 persone nei sei Opg italiani ( erano 993 a fine 2014, 1.051 a fine 2013, 1.094 a fine 2012). Oggi gli internati censiti dal Dap dovrebbero essere solo quelli assegnati a casa di lavoro o a colonia agricola.

Secondo Antigone, la sola casa di lavoro interamente qualificata come tale, sebbene abbia annessa una sezione circondariale, è l’istituto maschile di Vasto, in Abruzzo, con una capienza ufficiale di 197 posti e che al 28 febbraio scorso recludeva 108 persone, di cui circa 70 internati. Ma nello stesso tempo, al carcere di Vasto si assiste al paradosso di una casa di lavoro dove molti internati sono dichiarati formalmente inabili a lavorare per problemi psichiatrici. A fronte di 108 persone presenti, 22 sono affette da psicosi, 38 da gravi disturbi della personalità, 25 da depressioni e 5 da disturbi bipolari. Situazione analoghe, se non peggiori, risulta anche altrove. Antigone conclude che è arrivato il momento di ripensare alle misure di sicurezza, perché oltre a una evidente insufficienza gestionale concreta, si «scontrano anche con un’infondatezza teorica che affonda le radici in una concezione illiberale del diritto penale».

Commenti Rocco Vazzana 9 May 2022 18:28 CEST

Lo strano putinismo degli antiputiniani mette nel mirino Cartabianca

Schiere di censori democratici fissano paletti al pluralismo. Fino a considerare possibile la chiusura di un programma del servizio pubblico

All’inizio sembrava solo idiozia pura. Quella che cancellava i corsi universitari su Dostoevskij, quella che espelleva dai tornei atleti indisponibili all’abiura del regime, quella che escludeva i gatti russi dalle competizioni feline internazionali. Ma col passare delle settimane l’idiozia si è rivelata una smania paradossalmente putianiana, portata avanti dagli anti putiniani più convinti, tendente a schiacciare ogni punto di vista dissonante non con la forza delle argomentazioni – che di certo non mancherebbero – ma con quella dell’imperio, del “taci, il nemico ti ascolta”.

Così, con l’elmetto in testa, schiere di censori democratici marciano per la campagna di Russia fissando paletti al pluralismo, stilando liste di giornalisti e intellettuali apostati, mettendo bocca sui palinsesti televisivi. Fino a considerare possibile (al momento non c’è nulla di ufficiale) la chiusura di un programma del servizio pubblico, Cartabianca, condotto da Bianca Berlinguer, finito nel mirino del politicamente corretto dal giorno dell’invasione russa in Ucraina. Troppi ospiti non graditi a chi gira in tasca con verità preconfezionate e inscalfibili: dal professore “non allineato” Alessandro Orsini, in realtà così supponente ed egocentrato dal servire meglio di chiunque altro la causa ucraina e atlantista, alla giornalista della tv russa Zvezda Nadana Fridrikhson, liquidata come «spia» senza alcuna prova.

Ma in epoca di guerra non c’è tempo per le prove e le “liturgie democratiche”, le bocche prima si tappano e poi, solo poi, si ragionerà sulla libertà. Uno schema già visto con la pandemia, dove la ridicolizzazione di qualsiasi legittima perplessità ha dato la stura ai complottismi dei terrapiattisti della peggior specie, che sembra ripetersi adesso, con la guerra, in cui appena avanzi un dubbio vieni iscritto d’ufficio all’elenco degli amici del mostro. Funziona così il “putinismo democratico”. E non ammette eresie.

Cronaca 9 May 2022 15:38 CEST

È morto Walter De Benedetto, simbolo della battaglia per la cannabis legale

Walter De Benedetto, 50 anni, era affetto da artrite reumatoide. Accusato di coltivazione illecita di cannabis, era stato assolto nel 2021. Cappato: «Ha scelto di battersi come un leone contro l’idiozia e la violenza di uno stato che l’ha portato alla sbarra perché si doveva curare con la cannabis»

È morto in seguito ad un arresto cardiaco Walter De Benedetto, 50 anni, affetto da artrite reumatoide. Era diventato un simbolo della battaglia per coloro che necessitano della cannabis a scopo terapeutico. Nel 2019 era finito sotto processo dopo un blitz al suo domicilio da parte dei carabinieri, per una serra dove De Benedetto coltivava cannabis. La dose consentita per legge non era sufficiente a lenire i dolori lancinanti che la malattia gli provocava. Accusato di coltivazione illecita di cannabis, era stato assolto nel 2021.

De Benedetto si era più volte speso anche sul delicato tema dell’eutanasia. Tanti i messaggi che si leggono nella sua bacheca tra questi uno dei primi quello di Marco Cappato. «La prima volta che sono stato a casa di Walter – scrive Marco Cappato – era perché voleva parlare del suo fine vita. Da allora, invece, ha scelto di battersi come un leone contro l’idiozia e la violenza di uno stato che l’ha portato alla sbarra perché si doveva curare con la cannabis. Ha vinto la sua battaglia processuale, non abbiamo fatto in tempo a vincere con lui in Parlamento o col referendum la battaglia politica per la legge. Andiamo avanti, anche in sua memoria. Grazie Walter».

«Questa notte ci ha lasciati Walter De Benedetto. Ha lottato tanto, non solo contro la malattia ma per cambiare questo Paese. Lo ha fatto e ha vinto in tribunale dove uno Stato proibizionista, folle e crudele lo ha portato come imputato per essersi coltivato la Cannabis che gli serviva ad alleviare i suoi dolori», scrive su Facebook Riccardo Magi, deputato e Presidente di +Europa. «Lo ha fatto – aggiunge – sostenendo le campagne e le iniziative per legalizzare la cannabis senza mai risparmiare energie. Riposa in pace caro Walter, continueremo a lottare per gli stessi obiettivi, a partire dalla mia proposta sulla coltivazione domestica, che proprio ora è in discussione in Commissione Giustizia e che ti avrebbe evitato un processo e tante preoccupazioni».

«Walter De Benedetto oggi ci ha lasciato. Con il suo corpo e la sua lotta processuale e politica ha reso evidenti in prima persona i danni causati dal proibizionismo nel nostro Paese», lo ricordano in una nota Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente di Radicali Italiani. «Quando è stato processato per coltivazione domestica di cannabis – l’unica cura per la grave forma di artrite reumatoide di cui soffriva sin da giovane – la sua assoluzione ha rappresentato uno spiraglio di luce per tanti pazienti che, come lui, continuano a vedersi negata la propria terapia e i propri diritti. Ricordiamo con grande emozione l’applauso dei tanti che con noi erano ad Arezzo di fronte al tribunale sotto una pioggia scrosciante, quando arrivò la notizia dell’assoluzione. Walter venne assolto ma la legge proibizionista rimane da condannare senza attenuanti. Una legge criminogena che riempie le galere di disperati e consegna miliardi di euro alle mafie e alla criminalità. Walter non c’è più ma noi continueremo a lottare contro lo Stato proibizionista, per liberare la cannabis dalle mani delle mafie. Continueremo a farlo in onore di Walter, della sua tenacia e del suo esempio», concludono.

Intervista 9 May 2022 15:16 CEST

«Non è questione di soldi, ma di civiltà: sogno un futuro libero dalla censura»

«La mia filosofia? Espandere la coscienza biologica e digitale per comprendere meglio la natura dell’universo. Ma non è mia intenzione monopolizzare Twitter…». Ecco l’intervista a Elon Musk al Ted Talk dello scorso 14 aprile

Pubblichiamo di seguito un estratto dell’intervista di Chris Anderson a Elon Musk, trasmessa live al Ted Talk dello scorso 14 aprile. 

Elon, qualche ora fa ha fatto un’offerta per comprare Twitter. Perché?

Come lo ha saputo?

Un uccellino me lo ha twittato all’orecchio. Perché fare quest’offerta?

Penso che sia molto importante che ci sia un’arena inclusiva per libertà di parola. Twitter ne è diventato, de facto, la piazza principale. Quindi è veramente importante che le persone abbiano sia la percezione, sia la reale possibilità di parlare liberamente all’interno dei confini della legge. Una delle cose che credo che Twitter dovrebbe fare è rendere il suo algoritmo open source e possibili le modifiche ai tweet delle persone. Sia che quest’ultimi siano enfatizzati o edulcorati, ogni azione dovrebbe essere trasparente, cosicché tutti possano vedere come si è agito. In tal modo, non c’è alcuna manipolazione dietro le quinte, sia essa algoritmica o manuale.

Quando abbiamo parlato la settimana scorsa, le ho chiesto se stava pensando di appropriarsene. Lei mi hai risposto: “In alcun modo, non voglio possedere Twitter. È una ricetta per l’infelicità. Tutti mi incolperanno per qualsiasi cosa”. Cosa diavolo è cambiato?

Sì, penso che tutti m’incolperanno comunque per ogni cosa. Se acquisisco Twitter e qualcosa va storto, è colpa mia, al cento per cento.

Sarà deprimente, ma vuole comunque farlo. Perché?

Bhe, spero che non sia troppo deprimente! Penso solo che sia importante per la funzione della democrazia. Lo è per il funzionamento degli Stati Uniti come Paese libero e cosí per altre nazioni, per promuovere davvero la libertà nel mondo e soprattutto negli USA. Penso che il rischio per la civiltà sia inversamente proporzionale alla fiducia verso Twitter come piattaforma pubblica. Lo scopo, aggiungerei, è quello di mantenere quanti più azionisti sia consentito dalla legge avere per una compagnia privata, che credo sia intorno ai 2mila. Di certo, il mio non è il punto di vista di chi vuole monopolizzare o massimizzare la proprietà di Twitter, ma proveremo a portare il maggior numero consentito di azionisti.

Non vuole necessariamente pagare 40 miliardi di dollari – o qualunque cifra sia cash. Vorrebbe che questi soldi venissero con lei nella compagnia.

Oddio, potrei tecnicamente permettermelo. Ma quello che voglio dire è che non si tratta di un modo per fare soldi. È solo che ho una percezione forte e istintiva che mi dice che avere una piattaforma pubblica degna di fiducia e largamente inclusiva è estremamente importante per il futuro della civiltà. Non mi interessa affatto degli aspetti economici.

È bello sentirlo. Non si tratta di economia, ma del bene morale che pensa di poter raggiungere. Si è descritto lei stesso, Elon, come un assolutista della libertà d’espressione. Ciò significa che non c’è letteralmente nulla che le persone non possano dire e che questo vada bene?

Penso che Twitter, o qualsiasi altro forum, sia legato alle leggi del Paese in cui opera. Ovviamente, ci sono delle limitazioni alla libertà di parola negli USA e, certamente, Twitter dovrà attenersi a quelle regole.

Giusto. Quindi non si può incitare le gente alla violenza in modo diretto. Non si può fare l’equivalente di urlare “Al fuoco!” in un cinema, ad esempio.

No, quello sarebbe un crimine. Dovrebbe essere un crimine.

Qui sta la sfida. C’è una sfumata differenza tra incitare direttamente alla violenza – che di certo è illegale – e l’hate speech, le cui forme alle volte vanno bene. Io odio gli spinaci…

Anche se saltati con la besciamella? (ride)

Il problema è questo. Mettiamo che qualcuno scriva il tweet “Odio il politico X”. Il tweet successivo è “Vorrei che il politico X fosse morto”, come molti di noi hanno detto di Putin adesso, per esempio. È un discorso legittimo. Un altro tweet dice “Vorrei che il politico X fosse morto”, con una foto di una pistola puntata alla sua testa, o questo più il suo indirizzo. A un certo punto, credo che qualcuno debba decidere quali di questi tweet vada bene. Può farlo un algoritmo o c’è la necessità del giudizio umano in certi casi?

No, come ho già detto, penso che Twitter dovrebbe rispettare le leggi di ogni Paese e, in realtà, si è già obbligati a farlo. Andando oltre, però, avere poco chiaro chi sta facendo le modifiche e dove, avere tweet misteriosamente promossi o retrocessi senza alcuna comprensione di cosa accada, lasciando che un algoritmo a scatola chiusa promuova delle cose e non altre, ecco, penso che questo possa essere pericoloso.

Pertanto l’idea di aprire l’algoritmo è un’operazione enorme. Penso che molte persone l’accoglierebbero con entusiasmo, di capire esattamente come venga presa una decisione.

E di criticarla. Penso che il codice dovrebbe essere su GitHub (servizio di hosting per progetti software, ndr). Cosí, allora, le persone possono passarlo in rassegna e dire: “C’è un problema qua. Non sono d’accordo con questo”. Possono evidenziare dei problemi, suggerire dei cambiamenti, nella stessa maniera in cui si aggiornano Linux o Signal o simili.

Da quel che capisco, quello che farebbe adesso l’algoritmo, per esempio, è guardare a quante persone hanno segnalato un tweet come offensivo e, a un certo punto, un umano deve darci un’occhiata e prendere una decisione chiedendosi: “Supera il limite o no?”. L’algoritmo in sé non può; non credo che possa ancora distinguere la differenza tra legale, giusto e certamente offensivo. La questione è: quali umani prendono questa decisione? Ne ha un’idea? Adesso, Twitter, Facebook e altri hanno assunto migliaia di persone per provare prendere decisioni sagge e il guaio è che nessuno sa mettersi d’accordo su cos’è saggio. Come si può risolvere questa situazione?

Penso che, nel dubbio, lasceremmo che quell’intervento rimanga, che continui a esistere. Se ci si trova in un’area grigia, direi di lasciare che il tweet esista. Ma ovviamente nel caso in cui magari ci sia un’accesa controversia, credo che non si debba necessariamente promuovere un tweet. Non dico che ho tutte le risposte in tasca, però credo solo che vogliamo essere riluttanti a rimuovere le cose e molto cauti con i divieti permanenti. Penso che i time out siano meglio che le messe al bando permanenti. Ma in generale, come ho detto, non sarà perfetto, ma penso che vogliamo la percezione e una realtà dove si possa avere la maggiore libertà d’espressione possibile. E un buon segno che ci sia libertà di parola è che qualcuno che non ti piace possa dire qualcosa che non ti piace. E se questo è il caso, allora abbiamo la libertà di parola. Ed è una cosa dannatamente noiosa quando qualcuno che non ti piace dice qualcosa che non ti piace. Quello è il segno di una situazione di libertà d’espressione funzionante e in salute.

Penso che molte persone sarebbero d’accordo con quello che ha detto. Guardando alle reazioni online, in molti sono entusiasti del suo ingresso in campo e dei cambiamenti che propone. Altri, invece, inorridiscono. Ecco come la vedono, dicono: “Aspetta, siamo d’accordo che Twitter sia una piazza incredibilmente importante, in cui il mondo scambia opinioni su questioni di vita e di morte. Come diavolo potrebbe essere posseduto dalla persona più ricca al mondo? Non può essere giusto”. Cosa risponde? C’è una maniera chiara e netta, che sia convincente per le persone, per distanziarla dall’effettivo processo decisionale che incide sui contenuti?

Come dicevo, penso che sia importante che l’algoritmo diventi open source e che ogni aggiustamento manuale sia identificato. Cosí, se qualcuno intervenisse in qualche modo su un tweet, ci sarebbero delle informazioni allegate a mostrare che qualcuno ha agito. E io non sarei personalmente coinvolto nella revisione dei tweet. Ma voi saprete se qualcosa è stato fatto per promuovere, retrocedere o influenzare in altro modo un tweet. Riguardo la proprietà del medium, voglio dire, avete Mark Zuckerberg che possiede Facebook, Instagram e Whatsapp, e con una struttura azionaria che vedrà Mark Zuckerberg XIV ancora in controllo di queste entità. Non sarà cosí per Twitter.

Se si impegna per aprire l’algoritmo, questo è segno di sicurezza. Ci parli di qualche altro cambiamento che ha proposto. Il pulsante di modifica arriverà sicuramente se la spunterà.

Francamente, una priorità assoluta sarebbe quella di eliminare lo spam, i bot truffa, gli eserciti di bot che sono su Twitter. Credo che questi rendano il prodotto molto peggiore. Se avessi un Dogecoin per ogni cripto scam che vedo, avrei cento miliardi di Dogecoin.

Riguardo al pulsante di modifica, come supera il problema seguente. Qualcuno twitta “Elon spacca”, ed è ritwittato da 2 milioni di persone, e dopo lo modificano in “Elon fa schifo”. A quel punto, chi ha fatto tutti quei retweet si trova in imbarazzo. Come si fa ad evitare tali cambiamenti di significato?

Credo che avresti la possibilità di modificare solo per un breve periodo di tempo. E probabilmente la cosa da fare a seguito della modifica sarebbe quella di azzerare tutti i ret- weet e i preferiti.

Okay.

Sono aperto ad altre idee, però.

Penso che per molte persone sia un enigma il modo in cui ha innovato differenti tipi d’industria. Ogni imprenditore vede una possibilità nel futuro e agisce per far in mo- do che si realizzi. Lei vede una possibilità scientifica basata su una profonda conoscenza della fisica. Vede una possibilità tecnologica e poi, solitamente, la combina con una economica di quanto possa costare. C’è un sistema in cui immagina di poter fare quella cosa in maniera conveniente?

Penso che sia un aspetto della condizione in cui ero (da adolescente con la sindrome di Asperger NdR). Ero ossessionato dalla verità. È stato il motivo per cui ho studiato fisica, perché tenta di capire la verità dell’universo. E poi computer science e la teoria dell’informazione anche per capire la logica. C’è un dibattito per cui si dice che la teoria dell’informazione operi a un livello più fondamentale della fisica. La fisica e l’informazione sono molto interessanti per me.

Quando dice “verità”, parla della verità dell’universo, che guida l’universo. È una curiosità profonda su cosa sia l’universo, perché siamo qui. 

Penso sia molto importante. In verità, quando ero un adolescente, ero piuttosto depresso riguardo al significato della vita. Tentavo di capirlo leggendo testi religiosi e di filosofia. Mi sono imbattuto nei filosofi tedeschi – che non è il massimo se sei un adolescente. Poi mi sono ritrovato a leggere Guida galattica per gli autostoppisti, che è in realtà un libro sulla filosofia, solo travestito da piccolo libro umoristico. Adams (Douglas Adams, il protagonista, ndr) fa notare che in realtà è la domanda a essere più difficile della risposta. Ciò genera una specie di battuta sul fatto che la risposta è 42. Quel numero salta fuori spesso. E 420 (numero simbolico a cui Musk ha fatto riferimento in più occasioni, ndr) è solo dieci volte più significativo di 42.

È cosí che vede il significato delle cose dunque, una ricerca delle domande? 

Sì. Ho una proposta di visione del mondo o di una filosofia motivante. Si tratta di capire quali domande porre sull’universo, e concordare che se espandiamo la portata e la scala della coscienza, biologica e digitale, saremo più capaci di porre queste domande, di inquadrarle e capire perché siamo qui, che diavolo sta succedendo. Questa è la mia filosofia guida, è quella di espandere la portata e la scala della coscienza, in modo da poter comprendere meglio la natura dell’universo.

Una delle cose che mi ha toccato di più la settimana scorsa è stato vederla con suo figlio, X. Come vede il suo futuro? Non intendo personalmente, ma del mondo in cui crescerà. In quale futuro pensa diventerà grande? 

Un futuro molto digitale, un mondo diverso rispetto a quello in cui io sono cresciuto, questo è sicuro. Penso che vogliamo ovviamente fare del nostro meglio affinché il futuro sia buono per i figli di tutti e che il futuro sia qualcosa a cui si possa guardare con entusiasmo e non di cui sentirsi tristi. Chiunque vorrebbe alzarsi la mattina ed essere elettrizzato per il futuro, e dovremmo lottare per le cose che ci rendono elettrizzati. Il futuro non può essere una cosa avvilente dopo l’altra, risolvere un problema triste dopo l’altro. Devono esserci delle cose che ti eccitano e per cui si vuol vivere. Queste cose sono molto importanti e dovremmo averne di più.

È ancora tutto da giocare. Il futuro può essere orribile. Ci sono ancora degli scenari in cui lo è, ma lei vede un percorso verso un futuro esaltante, sia sulla Terra che su Marte, e nelle nostre teste, attraverso l’intelligenza artificiale e cosí via. Nel profondo del suo cuore, crede davvero di stare contribuendo a un futuro entusiasmante per X e per gli altri?

Sto facendo del mio meglio per ottenerlo. Amo l’umanità e penso che dovremmo combattere affinché questa abbia un buon futuro. Dovremmo essere ottimisti per il futuro e lottare perché questo futuro roseo si realizzi.

(Traduzione di Pierangelo Milano)

Diritti Simona Musco 7 May 2022 18:36 CEST

«Attaccano i temi etici ma la società italiana è più avanti, anche sulla surrogata…»

Il presidente di +Europa: «Sulla surrogata c’è furore ideologico. Ma la società è molto più avanti di così»
Lega

«Proposte mosse da furore ideologico». Non ha molti dubbi Riccardo Magi, deputato e presidente di + Europa, che classifica nella categoria “propaganda” i ddl presentati da Giorgia Meloni e Mara Carfagna sulla gestazione per altri. Proposte che si identificano a partire dalla scelta dei termini da utilizzare, che appongono etichette sul corpo delle donne, col solo scopo di arrivare all’appuntamento elettorale del 2023 con un’agenda in grado di fare colpo sull’elettorato, secondo il parlamentare, firmatario di una proposta che mira a legalizzare la gestazioni per altri nella versione solidale. «C’è l’intento di sferrare un attacco sui temi definiti “etici”. Ma la società italiana è molto più avanti di come si pensi», dice al Dubbio.

Onorevole, la terminologia “utero in affitto” colpisce molto l’opinione pubblica: rappresenta un’etichetta sulle donne che inevitabilmente condiziona il dibattito.

Questo dimostra l’intento della proposta, che è del tutto propagandistico ed elettoralistico. Non a caso la richiesta del centrodestra, in particolare di Fratelli d’Italia, arriva in questo momento. Mi pare che ci sia, in questa fase della legislatura, l’intento di sferrare un attacco sui temi che vengono definiti “etici”, ma che in realtà sono grandi temi sociali. Questo vale per la gestazione per altri come per quello che sta avvenendo al Senato per il suicidio medicalmente assistito e per altri versi per quelle che sono state le proposte sugli stupefacenti. Politicamente, questa è la manovra che vedo. Sono sicuro che questa legge non possa andare avanti, però si utilizzano questi argomenti come una clava. Argomenti estremamente sensibili, che andrebbero maneggiati con maggiore attenzione, proprio perché toccano nell’intimo migliaia di persone. La tendenza, invece, è quella di utilizzarli quasi con disprezzo, raccontando che questo viene fatto per la difesa della donna e per la tutela della sua dignità.

Il centrodestra sostiene che si tratti di una commercializzazione del corpo delle donne e soprattutto del bambino frutto di questa pratica. Come si può rispondere a chi paventa questo rischio?

In realtà è proprio per contrastare rischi di questo tipo che sarebbe importante avere una regolamentazione, così come avviene nel Regno Unito, in Canada e in Grecia, per altri versi. E questa è la prima risposta che andrebbe data. Dall’altro lato quello che c’è di più preoccupante e di violento nell’approccio che viene proposto è che nei fatti la proposta Meloni- Carfagna avrebbe delle conseguenze estremamente pesanti proprio sui bambini. La cui tutela, secondo tutte le pronunce, anche della Corte Costituzionale, dovrebbe essere l’obiettivo principale. L’esito di questa criminalizzazione della gestazione per altri, di fatto, sarà un allontanamento dei figli dai genitori. E a me sembra una follia, che spiego solo con l’intento propagandistico, che però non rende meno grave e irresponsabile questa proposta.

Il punto debole di questa proposta è che per essere efficace la gestazione per altri deve essere un reato anche nel Paese estero in cui si tenta di metterla in pratica.

È una proposta in contrasto con il diritto internazionale e con il principio di reciprocità dei sistemi giurisdizionali. C’è l’idea di renderlo un reato universale, ma non ci si rende conto che anche sotto questo profilo non regge e questo è un altro elemento che dimostra il carattere puramente propagandistico. Ma poi preoccupa il fatto che questi temi andrebbero affrontati con un approccio diverso. Con meno clamore e con una volontà maggiore anche di comprendere quali sono le storie – spesso drammatiche e umanamente importanti – delle persone che fanno e hanno fatto ricorso a questa pratica.

Ci sono dei profili di incostituzionalità di questa norma, qualora passasse?

Secondo me sì e risiedono proprio nel contrasto con il diritto internazionale, che la renderebbe inapplicabile di fatto, anche in contrasto con la legge 40 che va a modificare. Purtroppo però non è la prima volta che vengono proposte, a livello parlamentare, delle norme incostituzionali. Purtroppo è stato impossibile abbinare a questa l’altra proposta, che mira alla regolamentazione, perché questa si muove su un ambito esclusivamente penale, e quindi è solo competenza della Commissione giustizia, mentre l’altra, più ampia, è anche competenza della Commissione affari sociali. Altrimenti ci sarebbe stato un dibattito più ampio e più serio.

Ci sono anche molte femministe schierate contro il cosiddetto “utero in affitto”, nonostante le battaglie per rivendicare l’autonomia di ogni donna sulle scelte che riguardano il proprio corpo. Non c’è una contraddizione?

Io ho grande rispetto, su questi temi, delle posizioni di tutti e delle letture di tutti e anche un’attitudine al dialogo e alla comprensione. Ritengo, però, che nella società attuale, e di fronte alle possibilità che la scienza offre, anche alle persone che hanno problemi di infertilità o di infertilità sociale, la regolamentazione continui ad essere il modo migliore per affrontare queste questioni e non il divieto, la proibizione. Perché i rischi di abusi o di sfruttamento della donna sono più facili laddove non c’è una regolamentazione o dove c’è un divieto esplicito, perché è evidente che si creano delle zone grigie, o comunque si ricorre ad altri Paesi nei quali la società, la politica e le istituzioni hanno ritenuto più utile regolamentare questa pratica.

La soluzione sarebbe la gestazione per altri solidale?

Sì, regolamentata, individuando delle forme di rimborso per le donne che si rendono disponibili.

Quando conta in questo dibattito l’influenza della Chiesa?

Conta molto, ma conta su questo come sugli altri temi etici, che poi sono, appunto, temi sociali. Su questo, in particolare, c’è un’opposizione netta della Chiesa, ma sugli altri conta anche, dal punto di vista politico, il tentativo di conquistarsi delle parti di elettorato che si presume esistano e si spostino sulla base di questi temi. In realtà continuo a pensare che la società italiana sia più avanti delle indicazioni che arrivano dal Vaticano. Manca anche l’informazione, il racconto delle storie personali, drammatiche, delle famiglie che sono nate dalle pratiche di procreazione medicalmente assistita, tra le quali rientra anche la gestazione per altri. Le storie vengono proposte spesso in maniera dispregiativa e violenta, aggressiva, e questo non aiuta a far maturare nella società – e poi anche all’interno del Parlamento – una consapevolezza un po’ più ampia. C’è un enorme pregiudizio.

E questo pregiudizio come si supera?

Con l’informazione sulle esperienze concrete delle persone, sulle famiglie che sono nate e che vivono grazie a queste pratiche. È nella mancanza di conoscenza diretta che poi nasce la paura e anche il furore ideologico che è alla base di queste proposte, di chi sembra non si sia mai occupato di diritto di famiglia, sia da un punto di vista giuridico sia da un punto di vista della disumanità di chi affronta queste questioni.

Una delle obiezioni comuni è: perché non adottare?

Una cosa non esclude l’altra. Noi dobbiamo porci, come legislatori, di fronte ad una realtà che già c’è e ad una necessità di regolamentazione. Adottare è un’altra scelta, anche quella comporta delle procedure e non a tutti è consentito nel nostro Paese – penso alle coppie omosessuali e quindi anche in quei casi si ripropone la stessa questione. Anche lì servirebbe una riforma per ampliare i diritti. Ma soprattutto servirebbe sempre un punto di vista che anche la Corte costituzionale ha indicato, ed è quello dei diritti e del benessere complessivo dei figli. E questo secondo me è il profilo più grave che questa norma presenta: quello di scatenarsi con furore ideologico sulla gestazione per altri e poi in realtà colpire la parte più debole.

 

Lega
Avvocatura Errico Novi 7 May 2022 18:32 CEST

Equo compenso ancora sotto tiro: «Perché tutelare gli autonomi?…»

In un parere sulla nuova legge, tre accademici giudicano la dignità dei professionisti “estranea all’interesse pubblico”

Che ci siano forze contrarie a una disciplina rafforzata sull’equo compenso è comprensibile, e non è una novità. Le norme introdotte per la prima volta a fine 2017, grazie all’impegno del Cnf e dell’allora guardasigilli Andrea Orlando, sono ora sottoposte a un tentativo di restyling in corso al Senato, dopo il via libera di Montecitorio al testo ( AC 3179) firmato Giorgia Meloni, arrivato lo scorso 13 ottobre. Naturalmente in attesa che i lavori di Palazzo Madama prendano una direzione chiara ( con il voto sui non pochi emendamenti presentati dai partiti), si moltiplicano le spinte in direzioni opposte. Spicca per esempio il parere, di cui ha dato conto il Sole- 24 Ore di ieri, prodotto da tre accademici: Giulio Napolitano di Roma-Tre, Silvio Martuccelli della Luiss e Gian Michele Roberti della Sapienza. Un giudizio assai critico sulla “riforma”, in cui colpisce una tesi che il quotidiano di Confindustria sintetizza così: “L’automatica nullità dei compensi pattuiti in misura inferiore agli importi stabiliti dai decreti ministeriali reintroduce di fatto un sistema di tariffe minime analogo a quello abrogato dal decreto Bersani nel 2006, sulla scorta delle sollecitazioni della Ue e dell’Antitrust”, ma “un sistema rigido di tariffe minime non sarebbe giustificato da un interesse pubblico, come invece richiesto dalla direttiva Bolkenstein”, annotano gli studiosi. Ecco: non ci sarebbe un interesse pubblico ad assicurare retribuzioni dignitose ai professionisti, innanzitutto agli avvocati. Ne sono così sicuri, gli accademici che hanno avvalorato la tesi? È un’idea che tradisce una visione non solo ultraliberista sul lavoro autonomo, ma anche disorganica rispetto allo sviluppo e alla crescita economica. Come si può ancora credere, dopo gli anni bui della crisi deflagrata nel 2011, che il mondo delle libere professioni rappresenti un universo sganciato dal sistema sociale, un’autosufficiente isola del privilegio? Come persistere in visioni fuori dal tempo dopo uno studio rigoroso sull’avvocatura come quello pubblicato una settimana fa da Censis e Cassa forense, in cui il 32,8 per cento degli intervistati dichiara di considerare seriamente l’addio alla professione, innanzitutto per via – lo dice il 52,9 per cento degli avvocati – della “scarsa remuneratività” del lavoro? Com’è dunque possibile sostenere che il compenso dei professionisti non rappresenti una rilevantissima questione di interesse pubblico, addirittura un’emergenza sociale?

Non preoccupa più di tanto la legittima ma per nulla condivisibile analisi accademica sull’equo compenso. Non dovrebbe preoccupare perché il Senato pare deciso nel confermare e anzi rafforzare i contenuti della legge approvata a Montecitorio. Al momento la convergenza politica sembra assoluta. L’iniziativa, è vero, ha un’originaria connotazione di centrodestra: la prima firmataria del testo adottato come base già alla Camera è la leader di FdI Giorgia Meloni, ne sono cofirmatari Jacopo Morrone della Lega e il responsabile Professioni di FI Andrea Mandelli. A Palazzo Madama il relatore, Emanuele Pellegrini, proviene sempre dal Carroccio, ed è tra l’altro un avvocato. Ma come detto all’inizio, l’equo compenso porta in sé la firma di Orlando, che 5 anni fa raccolse l’impulso del Cnf e del presidente Andrea Mascherin. Difficile dunque che i dem possano ritrattare una linea consolidata da anni, difficile anche che una forza solidarista come il Movimentoi 5 Stelle possa passare per l’unico vero ostacolo alla tutela dei professionisti. Ma naturalmente non si può dare niente per scontato, e una posizione come quella esposta nel parere dei tre accademici ricorda quanti nemici abbia la sfida sui compensi. Strano però che il clima di sofferenza sociale aggravato da due anni di pandemia, in cui proprio il lavoro autonomo, i professionisti e tra loro innanzitutto gli avvocati hanno pagato un prezzo altissimo, non scoraggi letture cosi anacronistiche.

Colpisce per esempio che lo studio, sempre nella sintesi riportata sul Sole, critichi il richiamo a soglie minime inderogabili ( e corrispondenti ai parametri ministeriali) per i compensi dovuti ai professionisti dai clienti forti ( Pa e partecipate incluse) pure perché “sganciato da ogni proporzionalità dettata da esigenze di tutela dei consumatori, anche per quanto riguarda la qualità delle prestazioni”. Come se ancora non si fosse radicata l’idea, anche tra gli studiosi, per cui la concorrenza al ribasso nel lavoro intellettuale non può che scaricarsi proprio sulla perdita di qualità. Viene anche obiettato che il restyling della legge prevede di correggere le norme sulla prescrizione per la rivalsa del professionista contro i compensi sotto soglia, in modo che il termine decorra non da una certa singola prestazione ma dalla “data in cui cessa il complessivo e ben più lungo rapporto con l’impresa”. Eppure sembra una regola dalla ratio semplicissima: è inevitabile che un avvocato, per esempio, si vedrà costretto a sospendere ogni azione pur di non compromettere il rapporto col cliente. Ma ingabbiarlo in una simile condizione equivale a invocare lo schiavismo del professionista. Davvero una lettura inspiegabile, in cui si fa fatica a non cogliere la nostalgia per uno schema mercatista sorpassato e doppiato più volte da quanto la realtà ha proposto in questi ultimi anni.

 

Avvocatura 7 May 2022 16:43 CEST

L’altolà dell’Aiga alla Cgil: «Giù le mani dall’equo compenso»

I giovani avvocati annunciano battaglia: «Allarma interesse Cgil su professionisti»
Francesco Paolo Perchinunno, presidente dell'Aiga: "Tolgono alle professioni le risorse dell'esonero contributivo"

«L’interesse della Cgil su questioni che riguardano i professionisti spaventa e allarma. Le professioni italiane non saranno mai proletarizzate e sindacalizzate, la nostra autonomia e indipendenza sarà favorita dall’approvazione del ddl sull’equo compenso». Così in una nota il presidente di Aiga Francesco Paolo Perchinunno esprime «preoccupazione per le critiche manifestate in questi giorni sul Ddl in materia di Equo Compenso. Il testo, a firma Meloni, Mandelli e Morrone – sottolinea – ha già ottenuto il parere positivo della Camera nell’ottobre 2021 ed è passato all’esame del Senato per l’approvazione. Il ddl concretizza anni di battaglie sostenute dall’Aiga per garantire ai professionisti una corretta remunerazione, che tenga conto della quantità e della qualità del lavoro svolto. La riapertura del dibattito e l’esame degli emendamenti rischiano, di fatto, di vanificare i progressi raggiunti sino ad ora e di arenare il provvedimento, considerato anche l’approssimarsi della fine della Legislatura», conclude.
«L’Aiga non ha mancato di rappresentare, nelle competenti sedi, le criticità ancora presenti nel Ddl 2419, integrando la propria relazione con proposte migliorative concrete e nel futuro, non mancherà di promuovere ogni iniziativa necessaria per il rafforzamento delle tutele dell’avvocatura e della dignità della professione – aggiungono l’avvocato Anna Coppola e l’avvocato Valentina Brecevich, rispettivamente componente di Giunta e Coordinatore del Dipartimento Dignità del lavoro -. In tal senso l’Aiga proseguirà con l’azione di sensibilizzazione e dialogo con tutte le forze politiche, continuando a lavorare in un’ottica proattiva, attraverso la proposizione di iniziative concrete e realizzabili, al fine di tutelare i giovani professionisti ed il loro futuro».
In una nota, la Cgil nazionale aveva infatti sostenuto che nel ddl sull’equo compenso «permangono alcune severe criticità che non possono essere sottovalutate: i criteri per la definizione della platea dei destinatari, la mancata esplicitazione dei parametri economici e la non inclusione delle Associazioni di rappresentanza dei professionisti autonomi come definite dalla L.81/2017 e delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative».
Per la Cgil «grave anche l’impostazione che ravviserebbe nella violazione dell’equo compenso una causa di illecito disciplinare deontologico a carico dei professionisti iscritti agli ordini, determinando così una colpa a carico del lavoratore e un’ulteriore demarcazione tra professionisti iscritti agli ordini e professionisti privi di ordine». «L’universo dei lavoratori e delle lavoratrici autonomi (ordinisti e non), che raccoglie oltre tre milioni di persone tra iscritti alle Casse professionali e alla Gestione Separata Inps, racchiude professioni e settori ancora oggi parcellizzati e sotto considerati, per i quali – sottolinea il sindacato di corso d’Italia – la crisi pandemica ha prodotto un peggioramento delle condizioni economiche e lavorative. Una legge che non ascolta le istanze e le richieste provenienti dai soggetti che rappresentano queste lavoratrici e questi lavoratori non può essere da noi appoggiata».
«Nonostante osserviamo la volontà di costruire un’attenzione specifica relativamente al compenso dei professionisti, non possiamo dirci soddisfatti del contenuto in discussione. I professionisti autonomi meritano tutele a tutto tondo, come la Cgil ribadisce da tempo, anche con la Carta dei Diritti universali del lavoro che -ricorda in conclusione la Cgil- ha dato vita alla proposta di legge ancora oggi ferma in Parlamento».

Francesco Paolo Perchinunno, presidente dell'Aiga: "Tolgono alle professioni le risorse dell'esonero contributivo"

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