Federica Anghinolfi è stata per anni il nome simbolo del presunto “sistema Bibbiano”. Un nome che, nell’immaginario collettivo, significava “ladra di bambini”. Dopo anni dedicati alla cura, la gogna mediatico-giudiziaria aveva stravolto la sua storia, trasformandola da angelo a demone. Una vera e propria inversione, che il Tribunale di Reggio Emilia ha però corretto, sentenziando solo tre piccole condanne su un centinaio di capi d’imputazione in totale. Una decisione che affossa completamente l’idea di un sistema finalizzato a strappare i bambini a genitori innocenti, come emerso chiaramente dall’istruttoria dibattimentale. Ora che il processo ha smontato quelle accuse, Anghinolfi - per la quale la procura aveva chiesto 15 anni di carcere - si racconta in esclusiva al Dubbio, dopo sei anni di silenzio. E si dice convinta di non poter più fare ciò che, per anni, ha fatto con amore. «Per i primi due mesi - racconta - ho pensato di farla finita. La luce ha vinto, ma quello che è stato distrutto è ormai andato perso. E non farei più questo lavoro».


Partiamo dalla sentenza. Dopo anni di accuse e di gogna mediatica, cosa sente?
Non riesco a spiegarmi perché sia accaduto tutto questo. Lavoravamo seguendo le norme, le direttive regionali, le buone prassi. Non eravamo mai soli, né come istituzione né come operatori. Collaboravamo con almeno tre o quattro enti diversi. Eppure è stato tutto stravolto. Sono felice che la sentenza abbia chiarito che non esisteva nessun sistema Bibbiano. Eppure ci hanno costruito addosso l’abito di un mostro. È stata una liberazione, certo, ma anche una grande amarezza. Perché sei anni di vita distrutti non te li restituisce nessuno.


Sei anni fa, l’arresto. Cosa ricorda?
Ogni singolo dettaglio. Era mattina presto. Stavo per uscire per andare a correre, quando mia sorella mi urlò che c’erano i carabinieri. Pensai a uno scherzo. Invece vidi quattro militari che insistevano: “Aprite!”. Mi mostrarono il mandato d’arresto. Non capivo nulla. Era surreale. Iniziarono a perquisire la casa, presero cellulari, computer. Io li accompagnai, quasi come un automa. Poi mi portarono in caserma. Mi fecero entrare e uscire dalla macchina più volte, chiudendo ogni volta tutte le porte. Ricordo il caldo soffocante, la sensazione di coercizione fisica e psicologica. Poi le impronte, il dna e infine mi riportarono a casa. Potevo vedere solo mia sorella per farmi portare la spesa. Sei mesi ai domiciliari, senza poter vedere o sentire nessuno.


Cosa ha provato in quei mesi?
Mi sono blindata in casa. Non guardavo la Tv, non leggevo i giornali, non volevo sapere nulla di quello che dicevano di noi. Rossella Ognibene, la mia avvocata, veniva ogni giorno. Insieme abbiamo iniziato a lavorare alla difesa. Lei è stata la mia ancora di salvezza.


Quando ha letto le accuse cosa ha pensato?
Non ci credevo. Hanno distorto tutto, ribaltato ogni gesto, ogni parola. Mi hanno attribuito reati mai commessi, azioni mai pensate. Non è mai esistita alcuna relazione con una delle affidatarie, né Claudio Foti è mai stato il mio psicoterapeuta. Sostanzialmente, ero il “lievito”, il motore dietro i capi di imputazione. All’inizio ero completamente sconvolta, tanto che per due mesi il pensiero del suicidio mi ossessionava, perché nulla di ciò che compariva nell’ordinanza corrispondeva alla realtà. Mi chiedevo: perché hanno costruito una narrazione così distorta, senza alcun legame con la verità? Noi eravamo professionisti, non certo eccezionali, ma cercavamo sempre di fare il nostro lavoro nel modo migliore possibile. Non avrei mai potuto immaginare, né tantomeno progettare, un piano politico o qualcosa del genere. Lavoravamo con empatia, cercando di aiutare bambini e adulti. Aiutare e distruggere sono due cose inconciliabili: o fai una cosa o l’altra, non possono coesistere.


I bambini coinvolti, per scelta della pm, non sono mai stati sentiti a processo. Chi erano questi minori?
Si trattava di bambini e bambine con storie di sofferenza vera, che avevano bisogno di protezione. I nostri interventi non erano arbitrari. Arrivavano segnalazioni da medici, insegnanti, vicini di casa. Quasi mai siamo depositari di una rivelazione diretta di maltrattamento da parte di un bambino. Anche perché comunque l'assistente sociale inizialmente tratta con gli adulti, non tratta coi minori. Tutto veniva valutato, discusso, approvato dai giudici. Nessuno di noi ha mai voluto separare famiglie, volevamo solo tutelare i più fragili. Ma all’esterno questo non interessava. Interessa il mostro, non la verità. È difficile comprendere come qualcuno possa immaginare un piano criminoso da parte nostra quando il nostro unico obiettivo era aiutare.


Lei e Monopoli, l’altro imputato principale, siete stati scarcerati con quella famosa ordinanza che vi definiva “reietti”: nessuno si sarebbe avvicinato a voi e dunque non avreste potuto reiterare reati. Cosa ha pensato leggendo quelle parole e com’è stato tornare in libertà?
La mia casa era diventata un luogo di estrema protezione. Ricordo la prima volta che sono uscita: era di sera, in macchina e passando davanti alla sede del Servizio ho avuto palpitazioni fortissime. Mi sentivo fuori posto ovunque. Quell’ordinanza non ha fatto altro che confermare un senso di annientamento della personalità, perché quello che è accaduto è stato proprio questo: un annientamento. I giornali non si sono limitati a parlare di ipotesi di reato, ma hanno scavato nella nostra intimità, stravolgendola. Non hanno raccontato la verità su niente. Mi sono sentita “squartata”. A volte, guardandomi allo specchio, mi chiedevo: “Ma chi sono io?”. Non mi riconoscevo più, era una vera depersonalizzazione. L’ordinanza ha solo confermato questa idea di rifiuto totale. Se una persona commette un reato - e io non ne avevo commessi - non credo le si debba distruggere la vita. Invece è quello che hanno fatto. L’idea del “cordone sanitario”, espressa dal gip, è stata quasi una trovata grottesca. Ho riso un po’, soprattutto quando è arrivato il covid e, paradossalmente, tutti siamo finiti dentro un “cordone sanitario” vero. A quel punto, mi sono sentita un po’ meglio, perché eravamo tutti allo stesso livello.


Com’è cambiata la sua vita?
Il 27 giugno 2019 è stato uno spartiacque pazzesco: avevo paura persino di essere picchiata. Ma non è successo. Quando uscivo, gente che conoscevo da sempre - anche amici - mi ignorava completamente, come se non esistessi. Non c’era violenza fisica, ma un’esclusione totale. È stata una vera umiliazione. Ho fatto di tutto per non essere riconosciuta: ho cambiato colore di capelli, casa... Poi è iniziato il processo.


La sua idea di giustizia è cambiata?
Credo che quello che ci è successo sia qualcosa di raro, almeno spero. L’ho chiamato “fuoco amico”. Noi collaboravamo molto con i carabinieri, anche con la pm Salvi. Ma a un certo punto è cambiato qualcosa, come se fossimo diventati avversari. Ricordo un incontro con lei nel 2017, in vista di un protocollo di collaborazione. Ma lei all’improvviso mi chiese molto duramente: “Perché fate così tanti allontanamenti?”. Fu il primo segnale che qualcosa non andava, che la collaborazione si era rotta.


E gli allontanamenti erano davvero così tanti come dicevano?
Il cosiddetto 403 c.c. si usa solo in situazioni di pericolo imminente per il minore, è un provvedimento amministrativo convalidato o meno dal tribunale. In sette anni di attività solo un provvedimento era stato rigettato dal tribunale e non riguardava i casi del processo: per errore nostro, perché non avevamo avvertito il magistrato in una situazione già sotto tutela. Ma i numeri, come ha dimostrato il processo, non erano alti.


Qual è stato il momento peggiore?
I primi due mesi, senza dubbio. Mi chiedevo come uscire da quella realtà così dolorosa. Poi ci sono state le udienze, soprattutto quando ascoltavo testimonianze che non corrispondevano al mio vissuto. Era difficile stare lì, immobile, ad ascoltare senza poter intervenire. Ho anche dovuto vendere la casa, chiedere aiuto per pagare gli avvocati. A sessant’anni ho fatto un corso per diventare Oss e sono andata a lavorare a Milano, dove nessuno mi conosceva e lì mi sono sentita libera.


Cos’è successo al mondo dei servizi sociali dopo questa inchiesta?
È stata una regressione enorme. Mi ha intristito che si sia persa l’attenzione al bambino come soggetto, per tornare a un sistema adulto-centrico, come negli anni ’70. Prima c’era una direttiva della Regione Emilia Romagna che considerava il maltrattamento all’infanzia come un problema di salute pubblica. Dopo questa vicenda, invece, la pressione probabilmente è stata tale da limitare nei fatti l’autonomia professionale.


E la politica? Come ha influenzato questa storia?
È stata una tempesta mediatica incredibile. Non si capisce come un piccolo servizio sociale possa attirare così tanta attenzione politica. Gli amministratori erano attenti, ma nella politica il sociale è sempre l’ultimo dei punti all’ordine del giorno. I bambini poi non votano, quindi l’interesse è ancora più basso. I partiti hanno cavalcato questa storia per i propri scopi, quando per noi operatori non si è mai ragionato in termini politici.


Vuole dire qualcosa ai suoi avvocati?
Rossella Ognibene è stata il mio faro. Senza di lei, non sarei qui. È stata instancabile, umile, precisa, una mente lucidissima. Le devo la vita, senza esagerare. Oliviero Mazza è un genio della strategia processuale: brillante, capace di leggere ogni dinamica e spiegarla con chiarezza. Insieme hanno fatto la differenza.


Cosa le resta di tutta questa storia?
Una ferita enorme. Non farei mai più questo lavoro. Sono sconvolta dalla distanza tra la verità dei tribunali e la macchina mediatica, che può distruggere tutto. Abbiamo dovuto dimostrare l’ovvio, quello che era sotto gli occhi di tutti. È stato disumano.