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An aerial view of the Srebrenica Genocide Memorial Center and the newly dug grave is seen prior to the mass burial ceremony in Potocari, Bosnia, Thursday, July 10, 2025. (AP Photo/Armin Durgut)
Ricorre l’11 luglio 1995 il trentesimo anniversario dell’eccidio di Srebrenica. Che si consumò nella cittadina della Bosnia ed Erzegovina, come dimostrato dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, il primo genocidio europeo dopo la Shoah.
A Srebrenica più di 8mila musulmani, senza differenza di sesso ed età, vennero trucidati dalle milizie serbe, guidate da Ratko Mladic, con i Caschi blu delle Nazioni Unite incapaci di difendere la popolazione inerme.
La tragedia della Seconda guerra mondiale non aveva dissolto le ombre cupe sull’Europa. Migliaia di vite spezzate, storie personali gettate nel giro di poco tempo nelle fosse comuni. Hatidza Mehmedovic riuscì a salvarsi nell’estate del ‘95. Il destino invece voltò le spalle ai suoi tre figli e al marito, massacrati dalla furia omicida dei serbo-bosniaci. Di loro rimasero solo pochi resti recuperati qualche anno dopo. La storia di Hatidza è identica a quella di migliaia di altri sopravvissuti.
L’11 luglio 1995 – giorno in cui convenzionalmente è collocato il massacro di Srebrenica - è anche una data spartiacque per il diritto internazionale, che negli ultimi tempi viene sbeffeggiato e umiliato da condotte arroganti. «Trent’anni fa – dice Marco Pedrazzi, ordinario di diritto internazionale nell’Università di Milano “Statale” – abbiamo assistito ad un momento di grande rilievo per l’ordinamento internazionale, in negativo e in positivo. È stata infatti rivelata la totale impotenza delle Nazioni Unite, la cui forza di pace, peraltro dotata di uomini e mezzi limitati, nulla ha fatto per impedire la strage, come appurato in anni recenti dai tribunali dei Paesi Bassi, Stato del contingente presente a Srebrenica. Al contempo, in positivo, tramite il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, istituito due anni prima dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, si sono conseguiti due risultati importanti: da un lato il massacro è stato qualificato dal Tribunale, appunto, quale genocidio. Non era la prima volta che un genocidio veniva accertato da un Tribunale penale internazionale. Era già accaduto per il Ruanda, da parte del Tribunale penale internazionale gemello, istituito dal Consiglio di sicurezza nel 1994, ma era la prima volta che ciò accadeva con riferimento a fatti avvenuti, a cinquant’anni dalla Shoah, nel cuore dell’Europa. Dall’altro lato, per questo crimine sono stati giudicati e puniti vari individui, compresi i massimi leader politici e militari della Repubblica serba di Bosnia».
L’accertamento dei fatti ha incontrato una serie di ostacoli, come rileva il professor Pedrazzi: «La qualificazione del massacro quale genocidio non è stata incontestata, sebbene essa sia stata confermata nel 2007 dalla Corte internazionale di giustizia, la quale ha accertato la responsabilità internazionale della Serbia, già Repubblica federale di Jugoslavia e poi Serbia-Montenegro, per non avere messo in atto le misure necessarie al fine di prevenire e di punire tale genocidio, pur non ravvisandone la responsabilità diretta. Si tratta, dunque, di un evento gravissimo che ha prodotto conseguenze di rilievo dal punto di vista del diritto internazionale».
La ferita del massacro di Srebrenica è, purtroppo, ancora aperta «come accade ogni volta che si scatena la violenza cieca tra gruppi umani, così come tra individui». Di questo è convinto Pedrazzi. «La memoria storica – osserva - rimane ancora profondamente divisa nella regione. I molti errori della comunità internazionale, commessi prima, durante e dopo Srebrenica, non hanno certo contribuito alla riconciliazione. Il ruolo giocato dalla giustizia internazionale in questo frangente è stato importante, ma ciò non è sufficiente per portare ad una pace stabile e duratura».
Nonostante tutto, il genocidio del 1995 ha offerti preziosi spunti di riflessione alla comunità giuridica. «Direi – afferma Marco Pedrazzi - che l’insegnamento principale consiste nella necessità di mettere in atto tutti gli sforzi possibili ai fini della prevenzione di eventi come quelli di trent’anni fa. Una volta che tali eventi si scatenano, è di solito troppo tardi per fermarli. Quando ciò succede, è obbligo di tutti gli Stati di non prestare aiuto o assistenza a chi commette violazioni gravi e su larga scala del diritto internazionale e, anzi, di cooperare per indurre, con modalità conformi al diritto internazionale, lo Stato o l’entità responsabile di tali violazioni a porre fine alle stesse. Purtroppo, sembra che il passato, compresa l’esperienza di Srebrenica, abbia insegnato molto poco da questo punto di vista, se si considerano le situazioni in corso di violazioni gravi e su larga scala dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario in zone a noi vicine, a fronte delle quali l’atteggiamento degli Stati terzi, compresi quelli che dicono di ispirarsi al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, pare continuare ad essere guidato dal mero interesse, anziché dall’obiettivo di impedire che tali violazioni vengano perpetrate».
Quanto accaduto in passato e lo scenario presente non devono indurre al pessimismo anche se negli ultimi anni il diritto internazionale è stato svilito. «Taluni dei principi fondamentali sui quali poggia l’ordinamento internazionale, fuoriuscito dalla Seconda guerra mondiale – conclude il professor Pedrazzi -, si pensi tra gli altri al divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali, ai principi del diritto internazionale umanitario che limitano la violenza nei conflitti armati, ma anche allo stesso principio pacta sunt servanda, sono oggi oggetto di attacco da varie parti, compresi gli attori più importanti del sistema, in una comunità internazionale decisamente più divisa di quanto non lo fosse negli anni Novanta del secolo scorso. In tale situazione, è tanto più necessario e urgente, dunque, lo sforzo di quegli attori e di quelle istituzioni che si pongono a presidio dell’ordine internazionale».