Il maestro e Margherita, magistrale opera seconda di Michael Lockshin, consente di osservare la storia del nuovo cinema nel momento in cui si compie. Il film sprofonda il pubblico in una dimensione onirica, allontanandosi, come una barca che rompa gli ormeggi, da ogni convenzione del cinema contemporaneo.

Nell’uso dilagante della finzione, in ogni sua forma, anche la più evoluta, il film riesce per converso a sprigionare notevole credibilità. In quasi tre ore il film resta agile, seppur ridondante, vero capolavoro di arte barocca e congiura che crea bellezza autentica, in un gioco di specchi infranti che muove dalla dimensione letteraria in un’instancabile opera di esplorazione dei grandi temi dell’umano. Prima delle persone e dei personaggi che abitano i film, vediamo in azione i loro spiriti, nell’atto di vendicarsi dei torti che ne hanno ferito le esistenze.

Poi ecco la dimensione interiore dell’artista, la solitudine di chi scrive per amore della libertà e invece incappa nelle miopie politiche del Soviet. Nella Mosca di poco meno di un secolo fa, non era infrequente essere accusati come collaborazionisti o congiurati avversi alla Rivoluzione per il solo fatto di voler raccontare il dubbio, l’ipotesi della fede, l’errore. E il Pilato che il film mostra, nel volto e nelle parole di Claes Bang, tra aramaico e latino, costa al suo autore un brusco stop creativo, da cui però nascono, diabolicamente, una nuova pièce e un’altra vita.

Bulgakov, interpretato in tutta la sua complessità di attore e personaggio da Evgeniy Tsyganov, vive il dissidio tra l’essere un romanziere ostacolato dal regime e sforzarsi di vivere la propria storia senza impazzire; diviene interlocutore privilegiato del misterioso consulente Woland, un sulfureo August Diehl, che parla di storia antica come se ne fosse stato testimone e predice eventi infausti con incredibile precisione di dettaglio.

Nella data simbolica del 1° maggio, l’incontro con l’amore della vita, che Yulia Snigir incarna al punto da inserirsi a pieno titolo tra i ritratti di donna del cinema di ogni tempo. Lei accompagnerà lo scrittore e se stessa sull’aspra strada del nuovo romanzo, e ogni cosa cambierà per sempre. Margherita e il suo Maestro attraverseranno il bene e il male della Mosca comunista e di quella borghese, insieme ai testimoni malefici e invisibili di ogni regime, arrivando a sfiorare un 30 dicembre 2022, nel profetico e visionario farsi largo del consumismo e di un gas che ogni individualità vogliono divorare e corrompere. Usando un repertorio di immagini e colori dai fortissimi contrasti, e costruendo immagini ora cronachistiche, ora vicine al delirio, l’autore riesce a contaminare il Coppola di Dracula con l’Argento de La Terza Madre, Murnau con Ejzenstein, Bergman con Kubrick. E il risultato è grande cinema d’autore, con uno sguardo personalissimo e genuinamente moscovita, su ipocrisie e smarrimenti che in egual misura funestano democrazie e regimi. Gli sguardi e i corpi trasmettono desiderio e orrore, follia e solitudine, stirando all’estremo la forza contemporanea del cinema come mezzo espressivo. Un film tra i migliori del cinema russo di sempre, capace di restare a lungo nelle nostre coscienze, costringendo a cercare in ognuno tracce del passaggio di Margherita e del suo Maestro, rischiando di essere presi, tutti, dalla loro luminosa follia. Il tutto creando il testacoda perfetto: l’ostracismo di alcuni consiglieri nella Russia putiniana al film, che rimanda allo stesso atto di censura artistica per opportunità politica che in Unione Sovietica veniva praticato agli indipendenti e appunto al Bulgakov scrittore. La trappola tesa dal passato al presente è scattata.