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L'abbraccio tra l'avvocato Marchesini e Ucchino
“Assolta perché il fatto non sussiste.” Una frase semplice, netta, definitiva. Così si è chiuso, nei giorni scorsi, un capitolo giudiziario tra i più controversi degli ultimi anni: quello sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Tra gli imputati anche Valentina Ucchino. Una vicenda che ha attraversato non solo i tribunali, ma anche l’arena mediatica e politica italiana, sollevando un clamore spesso superiore ai fatti, un’onda lunga di sospetti e accuse che ha travolto vite, storie e reputazioni.
Ora, dopo anni di udienze, testimonianze e analisi, arriva una sentenza che parla chiaro. E con essa, anche le parole di chi ha vissuto questo processo da dentro: l’avvocato Matteo Marchesini, difensore della dottoressa Ucchino, che ha affidato a una dichiarazione pubblica il senso profondo di questo esito.
«Non è mai scontata la pronuncia di una sentenza di assoluzione, soprattutto al termine di un processo di primo grado segnato da tanto clamore mediatico, tensioni politiche e una pressione sociale che si insinua anche tra le aule dei tribunali – ha dichiarato Marchesini -. Eppure, a Reggio Emilia, nel cuore di una vicenda che per anni ha spaccato l’opinione pubblica italiana, è accaduto: assolta perché il fatto non sussiste. Una frase semplice, ma potente. Una frase che racchiude il lungo viaggio attraverso il dolore, il pregiudizio e l’attesa di giustizia».
Parole che pesano, perché raccontano un processo che non è stato solo giuridico.
«Il processo sugli affidi illeciti di Bibbiano non è stato solo un processo penale: è stato un fenomeno sociale, una tempesta politica, un campo di battaglia ideologico. È diventato, fin dall’inizio, qualcosa di più grande delle persone che ne erano coinvolte. In quelle aule, però, tra faldoni e testimonianze, tra ricostruzioni e smentite, siamo tornati all’essenza: l’essere umano, la verità, il diritto». È un atto di memoria civile e professionale, quello dell’avvocato, ma anche una testimonianza sulla fatica del mestiere.
«Noi avvocati ci siamo trovati a navigare in un oceano burrascoso. Ogni udienza era una zattera da costruire con fatica, fatta di carte, di studio, di memoria, di ascolto, di coscienza. Ogni parola pronunciata aveva il peso specifico della responsabilità. Alla ricerca della giustizia, anche quando sta dalla parte scomoda della verità», ha aggiunto il legale.
E ancora: «Non c’erano solo norme da applicare, ma vite da difendere. Il volto delle nostre assistite e dei nostri assistiti ci ricordava che il processo non è mai solo procedura, ma è prima di tutto destino».
Poi arriva l’attimo, il momento che tutto cambia. «Quello che rimarrà inciso per sempre. L’attimo in cui la voce del giudice ha sciolto mesi, anni di dolore: “Assolta perché il fatto non sussiste”. Nessuna formula vaga, nessun dubbio lasciato in sospeso. Solo la limpidezza della giustizia che si compie». In quell’istante, «ho sentito le braccia della mia assistita stringermi forte. Era un abbraccio che sapeva di sollievo, di liberazione, di gratitudine. Ma soprattutto, era un abbraccio che diceva: la verità ha vinto, nonostante tutto»
Una riflessione che si chiude con una lezione, non solo professionale, ma civile: «Oggi, guardando indietro, sento l’orgoglio silenzioso di chi ha attraversato la tempesta e ne è uscito con la dignità intatta. La giustizia non è perfetta, ma sa essere giusta quando chi la serve non ascolta la voce delle tensioni o del clamore, ma si lascia guidare dal diritto e dalla coscienza. Il processo di Bibbiano ci ha lasciato una lezione severa, ma necessaria: la presunzione di innocenza non è un lusso, è un presidio di civiltà. E l’assoluzione, quando giunge dopo tanto pregiudizio, è anche un atto di coraggio. Un coraggio che merita di essere raccontato, ricordato, rispettato».
Un atto di coraggio. E una verità che, per una volta, riesce a farsi sentenza.