«Oggi, qui, rappresento un’imputata che chiede di essere guardata non come l’ombra di un teorema, che aleggia su questo processo sin dalle indagini, ma come persona. Una persona che per anni ha portato il peso enorme di accuse ingiuste, il dolore della stigmatizzazione pubblica, il sacrificio silenzioso di una reputazione costruita in anni di studio, di lavoro e di dedizione ai più deboli». È iniziata così l’arringa di Matteo Marchesini, difensore di Valentina Ucchino, neuropsichiatra infantile, responsabile del servizio di Npia di Montecchio Emilia, per la quale la pm Valentina Salvi ha chiesto una condanna ad un anno per falso e 8 mesi per rivelazione del segreto nel processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. La difesa ha voluto innanzitutto ribadire la buona fede e l’integrità della professionista, travolta — come altri — da un’indagine che «ha confuso ruoli e mescolato responsabilità», e che ha colpito duramente non solo la libertà ma anche la dignità di chi è finito sotto accusa. «Ucchino non è mai stata un’artefice, né una partecipe di un sistema delittuoso», ha ricordato con fermezza Marchesini. «Non ha mai piegato la propria scienza medica a scopi illeciti, ma ha sempre agito in buona fede e nel rispetto del suo mandato di cura».

Accuse deboli, interpretazioni sommarie

Il legale ha poi sottolineato quanto sia importante distinguere l’errore professionale, o l’interpretazione soggettiva, da un’azione penalmente rilevante. «La dignità della persona processata, e non solo la sua libertà, dipende dalla difficile attività di distinguere il corretto agire umano dall’intenzionalità di delinquere». E rivolgendosi alle giudici ha aggiunto: «Questo processo impone un compito difficile ma ineludibile: guardare ai singoli, non al sistema; ai fatti, non alle narrazioni».

L’avvocato ha parlato di accuse che, pur gravi nella forma, si sono dimostrate «inconsistenti, deboli, fragili, e in alcuni casi addirittura contraddittorie» nei contenuti. Quelle che l’accusa ha presentato come «certezze» si sono rivelate, secondo la difesa, «un fragile intreccio di deduzioni, di sopravalutazioni, di interpretazioni non aderenti al reale». Non è mancato un passaggio sul peso delle parole. «Perdonate una piccola digressione personale - ha evidenziato -, ma mio padre, che da giornalista ha vissuto di parole e tanto ha dato alla sua professione, mi ha insegnato che le parole vanno sempre scelte e non sprecate. Durante questo lungo e complicato processo, però, di parole ne sono state usate tante, forse troppe, e non tutte sono state davvero scelte con la cura necessaria a spiegare i fatti e le condotte che sono state, in questi anni, oggetto della lunga istruttoria dibattimentale».

Relazione clinica: assenza di dolo e prove

Il difensore ha depositato una memoria di circa 50 pagine, richiamando le parole stesse di Ucchino, rilasciate nelle dichiarazioni spontanee del 5 marzo 2025, che — ha detto — «riassumono in modo genuino e potente la sua sofferenza, la sua incomprensione, il suo sconcerto per un’accusa che non ha mai compreso fino in fondo». Ucchino aveva infatti dichiarato di aver «sempre praticato, e nonostante tutto pratico anche oggi, la mia professione con passione e dedizione. Inutile negare che c’è un prima dell’indagine cosiddetta “Angeli e Demoni” e un dopo: sia rispetto alla mia vita professionale che a quella privata. Ho infatti impiegato anni, anche sottoponendomi a sedute psicologiche, per elaborare lo sbigottimento iniziale, poi la rabbia e il dolore, per quanto mi veniva contestato a seguito delle indagini svolte a mio carico. Ho passato anni della mia vita a temere per ogni firma messa o per ogni parola detta, a volte, anche solo con ironia fra colleghi».

Nella sua memoria, Marchesini ha contestato l’assenza di una descrizione chiara e specifica della presunta falsità nella relazione clinica del 26 marzo 2018 sulla minore A. B., che Ucchino cofirmò, in quanto responsabile clinica del caso. Tuttavia, la relazione fu interamente redatta dalla psicologa Imelda Bonaretti e si basava su un percorso terapeutico svolto dalla stessa psicoterapeuta. Ucchino, che non aveva preso parte alle sedute, si fidò professionalmente della collega, come avviene di norma nei contesti sanitari: «Quando firmo una relazione mi affido senza pregiudizi alla professionalità del collega, senza doverne per forza dubitare», aveva affermato in aula Ucchino. «È fondamentale distinguere chi redige un testo e chi lo sottoscrive per competenza clinica – ha osservato Marchesini –. Ucchino non ha redatto la relazione, non ha preso parte alle sedute, e non ha avuto motivi clinici né elementi oggettivi per dubitare della collega».

E il capo di imputazione «non chiarisce se, come, ed in quale misura, le imputate avrebbero voluto effettivamente alterare la verità», rendendo il capo «eccessivamente generico» e carente dell’elemento del dolo. Perché «non si può imputare un dolo se non si è in grado di dimostrare quale parte del testo sarebbe falsa, chi l’ha inventata, e con quale scopo». Né la consulenza tecnica, né il diario clinico, né i documenti richiamati dall’accusa offrono dimostrazione di manipolazioni o falsità. Come sottolineato nella memoria, «il castello accusatorio appare un intreccio fragile di deduzioni, interpretazioni sommarie e sovrapposizioni di responsabilità». Inoltre, il quadro clinico descritto nella relazione del 26 marzo 2018 riflette «coerentemente quanto la dottoressa Ucchino conosceva del vissuto non solo clinico ma anche emotivo e familiare della minore».

La richiesta di assoluzione

L’imputazione si fonderebbe dunque su accuse «genericamente rivolte all’intera relazione», senza mai indicare «non solo l’individuazione del motivo per il quale Ucchino avrebbe commesso quel reato, ma anche e soprattutto, la prova di un elemento fondamentale: cioè, appunto, del dolo». Quale sarebbe stato il ruolo di Ucchino nel presunto sistema? Questo nell’istruttoria dibattimentale non è emerso e nemmeno nella requisitoria della pm, che infatti non ne ha fatto cenno. «Un “sistema” - ha aggiunto Marchesini -, figura, peraltro, astratta ed estranea alle categorie del diritto penale, che nulla dice e spiega sul ruolo, sul fine dei partecipanti e sul presunto accordo al quale tutti gli imputati avrebbero aderito».

Quanto al capo 92, relativo alla presunta rivelazione di informazioni riservate alla collega Bonaretti, la difesa evidenzia che l’atto da cui scaturisce l’accusa è viziato: Ucchino, già “indagabile” all’epoca delle sue sommarie informazioni, avrebbe dovuto essere sentita come indagata, non come testimone, rendendo l’atto inutilizzabile. Inoltre, la presunta rivelazione sarebbe avvenuta «in un contesto del tutto confidenziale» e in modo non intenzionale: «Ho agito sull’onda dell’impulsività - aveva dichiarato - e della particolare situazione emotiva del momento».

Da qui la richiesta di assoluzione con la formula più ampia «perché il fatto non sussiste o non costituisce reato» e – in via subordinata – il proscioglimento per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. per il capo 92.