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Fadia Bassmaji (a destra), il team di avvocati Studio Legale Associato Chiossi - Corradini - Stefani e la consulente psicologa Samantha Miazzi il giorno della sentenza
«Sono stata trasformata da persona in personaggio mediatico. Ma amore e verità vincono sempre». Fadia Bassmaji è stata una delle figure più esposte nel cosiddetto caso Bibbiano. Insieme alla sua ex compagna, era diventata, secondo l’impianto accusatorio, il volto di un presunto «progetto politico»: creare famiglie omogenitoriali attraverso affidi trasformati in adozioni di fatto. Una narrazione potente, alimentata da titoli allarmistici e sospetti costruiti. Eppure, tra centinaia di casi evocati nell’inchiesta, la loro era l’unica coppia affidataria finita a processo. L’accusa: maltrattamenti. La richiesta della procura: tre anni, gli stessi della durata dell’affido. A sostegno, una sola intercettazione su oltre tremila. Ma quelle altre registrazioni raccontavano una storia diversa: un legame profondo, fatto di cura, conflitti, ricuciture, amore. Interrotto — come tante vite — dall’indagine “Angeli e Demoni”. Oggi, dopo sei anni di silenzio e un’assoluzione piena — «il fatto non sussiste» — Fadia Bassmaji rompe il silenzio e si racconta al Dubbio.
Dopo sei anni, tre giudici hanno stabilito che il fatto non sussiste. Cosa prova adesso?
Mi sento leggera. È come se fossi tornata a respirare a pieni polmoni, dopo che una parte di ossigeno era stata messa sotto sequestro. Ma anche amarezza: se il fatto non sussiste è ancora più difficile accettare che questi sei anni siano stati possibili. Non solo per me, ma anche per la bimba che avevo in affido, per la mia famiglia e anche per tutta l’Italia, alla quale è stata raccontata una storia che non esisteva.
La pm aveva chiesto per lei una condanna a tre anni. La stessa durata dell’affido di Martina. Come sono stati quegli anni con lei?
È stata una storia d’amore, cresciuta lentamente, con il desiderio reciproco di esserci. Noi volevamo sostenerla, come si sostiene una pianta fragile nel vento. L’affido è stato durissimo, un percorso costellato di difficoltà, alti e bassi. Ma anche bellissimo. E ha retto. Perché c’era amore, dedizione, cura. Mi sono appassionata a lei e alla sua voglia di vivere. Ed è stato anche un servizio civile quello che stavamo compiendo. Un lavoro di accoglienza, di empatia, la scelta di non guardare dall’altra parte. Se non ci fosse stata una comunità di persone attorno a noi non avremmo retto.
C’è quella intercettazione. L’unica che è diventata pubblica. Le urla in macchina, la bambina che sembra venire lasciata sotto la pioggia…
Quella è l’unica intercettazione in cui la disperazione ha preso il sopravvento in tre anni di affido e nella quale la mia ex compagna ha avuto un momento di nervosismo. Del quale poi, in un’intercettazione successiva, si dice molto pentita. L’unica che faceva gioco alla narrazione costruita dalla procura, secondo la quale noi maltrattavamo Martina (nome di fantasia, ndr). Il meraviglioso lavoro fatto dai miei avvocati è stato quello di restituire il contesto a tutte queste chiacchiere. La bambina non scende mai dalla macchina. Era un momento molto complicato, avevamo i carabinieri col fiato sul collo. E lo era anche per lei, che aveva appena iniziato le scuole medie. Avevamo a che fare con un mondo diverso di adolescenti, il che significava, per Martina, doversi riadattare.
Tutte cose normali, in una famiglia.
Esatto. In una famiglia possono capitare momenti di tensione. Ma ciò che distingue una relazione sana da una che non funziona è come si chiude il conflitto. Noi abbiamo imparato — grazie alla terapia, grazie alla psicoterapeuta Nadia Bolognini, grazie alla guida degli operatori della Val D’Enza — a chiedere scusa, a spiegare, a ricucire. Sempre. Quella parte, però, non è mai stata raccontata.
E le altre intercettazioni? Quelle ignorate?
Ce ne sono più di 3mila. Ce n’è una in cui Martina, parlando con sua madre, dice chiaramente: “Non mi maltrattavano”. Eppure nessuno l’ha riportata. Nessuno l’ha ascoltata. Anche dopo gli arresti, lei chiedeva di vederci, di mantenere la continuità affettiva. Ma non le è stato concesso, perché noi eravamo state colpite da questa ingiusta misura cautelare. Avevamo dato la nostra disponibilità a degli incontri protetti, che si concedono anche in caso di abusi, ma non ci è stato consentito. Sentirle dire quelle parole mi ha dato la serenità di sapere che noi eravamo ancora in quella relazione. Quindi possono dire quello che vogliono, ma noi sappiamo che cosa è successo. Ho provato però anche tristezza, perché lei era sola in quella verità che è stata inquinata e contaminata in tutti i modi possibili dallo sguardo di tantissime persone che non c’erano. Ma lei è una persona coraggiosa e sono sicura che è riuscita a conservare la verità.
Secondo l’accusa, il vostro era un “progetto politico”. Ci si rivede?
È assurdo. Se per “politico” si intende prendersi cura di un essere umano affinché possa diventare un cittadino migliore, allora sì, l’affido è un atto politico. Ma l’accusa intendeva altro. Ha immaginato Martina usata come un oggetto, uno strumento, un mezzo per ottenere altro. Anche questo non è mai esistito perché lei per noi è sempre stata e sempre sarà una persona e le persone non si usano. Penso che quando ci sono di mezzo le vite di persone che non hanno voce in capitolo bisognerebbe stare attenti con le parole. E in tutta questa vicenda, sia le istituzioni sia i giornalisti non hanno avuto nessuna attenzione alle parole. Questo ha creato tante ferite che potevano essere evitate.
Siete state al centro di una campagna d’odio violentissima.
Sì. Sono stata trasformata da persona in personaggio. E quel personaggio serviva alla narrazione: la lesbica pericolosa, che distrugge la famiglia. Sui social mi hanno scritto cose indicibili. Quando ho citato alcuni per diffamazione e li ho incontrati in mediazione sede legale, mi guardavano spaesati: “Non sapevo chi fosse, non volevo offenderla”. Ma quelle parole terribili erano state dette. E la diffamazione è un reato. Per questo ho chiesto scuse scritte a mano, per far sì che, almeno per cinque minuti, il loro cervello riflettesse e si ricollegasse al cuore. Sono stata vittima di una cultura omofoba che mischia il piano intimo al piano sociale per dividere e differenziare per categorie. È come se vivessero mummificati in un’epoca lontanissima dalla realtà. La gogna mediatica è stata una valanga e le parole che sono state usate erano talmente taglienti e spaventose che le persone, comprese quelle che mi hanno diffamata sui social, hanno perso ogni freno. Come quando suona l’allarme e la gente scappa in preda al panico: per colpa di quel panico altra gente può restare schiacciata.
Cosa ricorda del giorno in cui hanno portato via Martina?
Per sei anni non ne ho parlato. Sono rimasta in silenzio, è stata una enorme violenza per un’artista e attivista come me ma questo mi ha insegnato tantissimo. È stata una scena surreale. C’erano sette persone in casa mia, all’alba, carabinieri e assistenti sociali. Hanno chiesto di fare una valigia e mi hanno detto di non potermi lasciare sola con Martina. Gli assistenti sociali che erano lì per potarla via non sapevano perché. Ho abbracciato Martina e le ho detto che sarebbe andato tutto bene. Ricordo le sue lacrime sulle scale, quasi come se volesse piangere fuori da questa casa, quella in cui aveva imparato a sostituire i sorrisi alle lacrime. Ricordo la perquisizione, il sequestro del cellulare, del computer, la notifica delle indagini con tutti i nomi delle persone della mia vita e poi in caserma, con una marea di carabinieri schierati e le persone che conosco che spuntavano fuori da tutte le parti. Mi sembrava una serie tv. Poi mi hanno detto che ero accusata di maltrattamento psicologico. Non potevo crederci. Non aveva e non ha alcun senso. E poi le impronte digitali, l’elenco delle cose sequestrate, io che corro a casa dei miei genitori senza sapere cosa dire… E poi vuoto, che è durato sei mesi, sei mesi di misura cautelare in cui il mio unico pensiero era rivolto a lei. Ero in una bolla. Le persone fingevano di non conoscermi. Ricordo di un amico che scrisse un commento sotto un post: io questa persona la conosco, non è come la state descrivendo. E sotto centinaia di insulti. È stato l’unico a tentare di contrastare questa valanga ed è stato travolto dalla valanga pure lui.
E il giorno della sentenza che giorno è stato?
Ero un’altra persona. Una persona diversa da quella che ero prima dell’arrivo dei carabinieri e una persona diversa da quella descritta in tutti questi anni. A me la sentenza non avrebbe spostato più di tanto: sarebbero state altre parole, speravo coraggiose, come poi sono state, ma non così tanto necessarie per me. Avevo già recuperato la mia serenità. Ma erano comunque parole di cui il nostro Paese aveva bisogno. Dovevano sapere che a Bibbiano non esistono assistenti sociali che si mettono d’accordo con affidatari e psicoterapeuti per fare del male ai bambini, alle famiglie. Ma sentire che il fatto non sussiste mi ha fatto provare un senso di liberazione. È stata la conferma di una certezza che ho sempre avuto e che ho condiviso con Martina fin dal primo giorno: amore e verità vincono sempre. Anche se attraversi il dolore, la solitudine, l’inferno. Non con l’odio o i titoli dei giornali, ma con empatia, ascolto e prossimità.
Cercherà Martina ora?
Lei lo sa che io l’aspetto. Sono diventata una campionessa dell’attesa. Ho continuato a scriverle lettere mai spedite, a dipingere, a pregare. Rimango una mamma in più. Se lei vorrà, io sarò qui. Il suo abbraccio sarà il vero finale di questa storia. Voglio ringraziare i miei avvocati, Andrea Stefani, Valentina Oleari Cappuccio con Martina Catellani e Benedetta Gazzini, la mia consulente, psicoterapeuta Samantha Miazzi con Anna Maso, che hanno chiamato questa storia “la nostra storia”. E voglio dire che non deve più succedere: non si può abbandonare chi si prende cura della fragilità. Servono adulti soccorrevoli. È con loro che si può ricostruire dove la violenza ha distrutto.