Con una sentenza di 140 pagine, la Corte di Cassazione ha posto la parola fine al processo penale nei confronti di Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino condannata all’ergastolo per la morte di quattro pazienti tra il 2014 e il 2015, a causa di somministrazioni massicce di eparina.

Una vicenda processuale lunga e controversa, che ha attraversato gradi di giudizio contrastanti: assoluzione in appello, annullamento della Cassazione, nuovo appello e infine conferma della condanna. Il verdetto della Suprema Corte rigetta tutti e 18 i motivi di ricorso presentati dall’avvocato Vinicio Nardo, dichiarandoli in parte inammissibili, in parte infondati.

Il dato più rilevante, tuttavia, non è solo il dispositivo: è l’architettura logica su cui si fonda la decisione. Un edificio costruito su tre pilastri argomentativi che meritano un’analisi attenta. La difesa sostiene che la Corte d’Appello abbia escluso in modo illogico la possibilità che l’eparina fosse stata somministrata in modalità diluita (non in bolo), ignorando alternative compatibili con i dati clinici. La Cassazione, però, aderisce integralmente alle conclusioni della perizia collegiale d’ufficio, ritenuta congruamente motivata e condivisibile.

La difesa ha sottolineato che i periti, nel corso del processo, hanno ammesso la possibilità di diluire eparina in flebo. Per la Corte, però, si tratta di un tentativo di rimettere in discussione la valutazione dei giudici di merito, senza dimostrare un travisamento macroscopico. La Cassazione precisa inoltre che, nella prova scientifica, il giudice può fare proprie le conclusioni del perito d’ufficio. Ma la vera chiave è che la Corte considera meno affidabili e comunque recessive tutte le tesi difensive, anche se basate su pareri tecnici strutturati. Il risultato è un modello processuale in cui il giudice diventa arbitro della scienza, il principio di parità tra consulenti finisce offuscato.

«La giurisprudenza che privilegia i periti del giudice (già di per sé odiosa poiché l’autorevolezza del tecnico andrebbe verificata non per l’aspetto soggettivo ma analizzando il contenuto oggettivo dei suoi assunti scientifici: operazione che fa del giudice un “peritus peritorum”) - commenta Nardo - dovrebbe riguardare solo i periti, ma in sentenza viene più spesso applicata ai consulenti del pm, con buona pace della parità delle parti. Ci sono diversi casi in cui il giudice, ora di primo ora di secondo grado, si discosta dalle conclusioni dei periti, e la corte finisce sempre per giustificare il discostamento ripiegando sulla tesi dei consulenti del pm (mai sul consulente della difesa). Si tenga conto che i periti sono stati sentiti dal gip in incidente probatorio e risentiti dalla corte fiorentina che aveva assolto, ma non dagli altri. In sostanza, la rigidità dell’impianto tiene grazie al fatto di passare dai periti ai consulenti secondo la necessità di non perdere l’anello della catena e sempre respingendo le argomentazioni scientifiche dei consulenti tecnici della difesa». La Cassazione non vede contraddizione e legittima il passaggio da un consulente all’altro (tribunale e accusa) come esercizio della discrezionalità valutativa del giudice di merito.

La difesa aveva mosso una critica centrale: l’impianto accusatorio si basa su una sequenza di indizi deboli, che solo sommati arbitrariamente vengono considerati certi. La Corte, al contrario, difende la struttura della motivazione d’appello come unitaria, logica e convergente. Il percorso motivazionale ha una struttura rigidamente concatenata, in cui ogni indizio rinvia al successivo e lo rafforza.

Si parte dalla costante presenza di Bonino nei turni critici (la cosiddetta “Costante Bonino”) e si passa per l’anomalia statistica delle morti, finendo per collegare la cessazione degli eventi letali al suo allontanamento. Anche il suo atteggiamento viene definito prova grave, precisa e concordante. Ma per la difesa è una costruzione che regge solo se nessun anello cede: «La ricostruzione atomistica - continua Nardo - è un escamotage cui la Cassazione (ma anche la Corte d’Appello) ricorre per superare incrinature su determinati punti. In pratica si dice anche se un punto fa acqua tutti gli altri sono certi, quindi anche quello va considerato certo. Il problema è che qui lo si usa sistematicamente per dichiarare certi i punti in sequenza e dichiarare conseguentemente certo anche il punto successivo. La nostra critica era globale - aggiunge -, mirando ad avere uno sguardo complessivo all’instabilità dell’impianto. La critica atomistica può valere in un caso, due, ma non su tutti gli anelli della catena».

Il caso Carletti è emblematico: la Corte accetta che la somministrazione di eparina sia avvenuta prima dell’ingresso in sala operatoria, pur essendo pacifico che il paziente sanguinò tre ore dopo l’intervento, cosa che sarebbe stata impossibile se in circolo ci fosse stata l’eparina: durante l’intervento ci sarebbe stata una emorragia inarrestabile. Un’anomalia scientifica che, per i consulenti anestesisti, scagionerebbe l’imputata. Ma per la Cassazione non è un errore determinante.

Il terzo fondamento della sentenza è l’invocazione del principio della “doppia conforme”: il fatto che due sentenze di merito (primo grado e appello di rinvio) abbiano raggiunto la stessa conclusione. Secondo la giurisprudenza, ciò limita fortemente il potere di verifica della Cassazione, che può intervenire solo in caso di vizi macroscopici. Ma in questo processo, la “doppia conforme” si ottiene eliminando la sentenza assolutoria, annullata dalla stessa Cassazione. Una sentenza che aveva sollevato gravi dubbi sulla compatibilità clinica, sulla catena logica, sulla coerenza scientifica.

È proprio questa sentenza — l’unica che aveva provato a leggere il quadro come globalmente instabile — a essere dichiarata irrilevante, e quindi non più utilizzabile come termine di confronto. La Corte chiude così ogni spiraglio: la verità processuale diventa quella consegnata dall’ultima sentenza d’appello. La funzione della Cassazione si riduce al controllo formale dell’impianto motivazionale. Un sistema chiuso che produce certezza.

«Proprio la sentenza che aveva fatto la somma delle debolezze ed aveva messo a nudo l’insostenibilità di alcune affermazioni cruciali - continua Nardo - viene in via di principio ignorata, altrimenti addio pezze ai buchi logici. In conclusione, fa abbastanza impressione una sentenza della Cassazione di 140 pagine, fitte e faticose, per dire che non ci sono dubbi». Insomma, in un processo che ha visto una Corte d’Appello assolvere integralmente l’imputata e un’altra condannarla all’ergastolo con lo stesso fascicolo, questo rigore assoluto non dissipa i dubbi: li espelle.