PHOTO
Disinfestare le strade reggiane da ogni riferimento alla città di Cutro. Suona più o meno così la proposta dell’ex prefetta di Reggio Emilia Antonella De Miro, che ha chiesto di cambiare il nome del viale intitolato alla città calabrese, per ribattezzare la strada che porta all’ingresso di Reggio Emilia come “libera da tutte le mafie”.
Un’etichetta con la quale rivendicare una presa di distanza dalla ‘ndrangheta, come se il maxi processo Aemilia - che ha svelato le infiltrazioni della mafia calabrese in terra padana - non fosse bastato. Serve un’azione simbolica, un’azione che, contemporaneamente, rischia di produrre una regressione culturale: identificare la città di Cutro con la ‘ndrangheta e i cutresi - tutti - con mafiosi. Pure quelli che hanno contribuito a costruire Reggio Emilia - e ai quali è dedicata quella strada - e che costituiscono un’ampia e laboriosa comunità in regione, non contaminata da logiche mafiose.
A benedire l’iniziativa, non a caso, è Nando Dalla Chiesa, autore di un memorabile report, nel 2014, col quale - in qualità di coordinatore del comitato antimafia del Comune di Milano - chiedeva di chiudere le frontiere alle imprese calabresi in vista dell’Expo: l’allarme criminalità stava tutta nella presenza di calabresi sui cantieri, nel ricorrere di «personaggi calabresi i cui cognomi o le cui località di origine o residenza ricorrono influentemente nella fittissima rete di relazioni su cui si costruiscono i legami di “lealtà” che alimentano le ‘ndrine e il cui affacciarsi può essere ricondotto al caso o alla coincidenza solo dall’ignoranza del fenomeno».
Caccia ai calabresi, dunque, sulla base di un dna corrotto al quale non si può porre rimedio, pure con la fedina penale linda come non mai. E oggi quel pensiero torna nella scelta di sponsorizzare la proposta di De Miro perché, per dirla ancora con Dalla Chiesa, «è da polli» non capire che il gemellaggio è il modo in cui la città si inchina al potere di Cutro. Che significa ‘ndrangheta, a prescindere da tutto.
De Miro (in pensione dal 2020) è colei che ha avviato la stagione delle interdittive antimafia. Una prefetta di ferro, che il primo luglio, insignita della cittadinanza onoraria a Rubiera, ha detto: «Mi turba vedere, arrivando a Reggio Emilia, la grande arteria di collegamento con il centro città intitolata tutt’oggi alla città di Cutro, nonostante il riferimento a Cutro evochi ai più la ‘ndrangheta reggiana che pretendeva di comandare la città». L’unico contributo dato da Cutro a Reggio Emilia, dunque, sembra la ‘ndrangheta. Ciò nonostante i mafiosi siano una minoranza.
La richiesta ha suscitato un ampio dibattito. E ha spinto l’ex presidente dem della Provincia, Sonia Masini, a invocare il coraggio della politica. «Dedicare la strada principale alla lotta contro tutte le mafie - dice in un intervento sul Resto del Carlino - non significa rappresentare anche i cutresi che non ne possono più di vedere il proprio nome associato alla ndrangheta?». Bisognerebbe chiederlo ai cutresi, forse. E anche allo stesso Pd, che da decenni governa Reggio Emilia e che ha scelto di onorare i cutresi che hanno costruito la città proprio dedicando al paese calabrese una strada.
Il dibattito è arrivato nella sala consiliare, dove il gruppo Reggio Civica, composto dagli avvocati Giovanni Tarquini e Carmine Migale, ha chiesto cautela. E ferma restando l’ovvia stima per De Miro - delle cui intenzioni non dubitano - «far ricadere su un’intera cittadinanza le responsabilità di singoli o di gruppi organizzati significa ledere un principio di cautela che deve sempre guidare le analisi sociali e ogni conseguente decisione di natura pubblica. Cutro - continua la nota - è portatrice di storia, cultura, dignità, generosità e spirito di solidarietà. Associarne il nome sempre e solo, quasi d’istinto, a casi giudiziari che hanno coinvolto una piccola parte del quel piccolo mondo, rappresenta una generalizzazione sbagliata e suona come un’offesa ingiusta verso tutte le persone oneste, e sono tante, di origine cutrese che vivono nel territorio reggiano».
Del resto, se il metro è questo allora bisognerebbe cancellare anche via Palermo, affermano i due consiglieri. E «non si può oggi, in nome di un pur importantissimo processo celebratosi nei confronti di tante persone originarie di Cutro, ma non solo, soffocare quel particolare sentimento di vicinanza e, in tal modo, ledere la reputazione sociale di chi in quella lontana città della Calabria ha le proprie radici e la propria storia. Questa sì che suonerebbe come una discriminazione che non fa onore alla nostra comunità reggiana, nota per le tante battaglie contro ogni forma di disparità sociale».
Interpellato dal Dubbio, l’avvocato Migale - reggiano, ma con origini cutresi - evidenzia come, al netto delle buone intenzioni della prefetta, «eliminare un nome da una via non è mai un atto neutro. Le denominazioni urbane non sono semplici etichette, ma veri e propri simboli che intessono il tessuto della memoria collettiva e dell’identità di una comunità. “Via Città di Cutro” evoca, senza dubbio, una fase complessa della storia della nostra regione e del nostro Paese, legata alla presenza e alle attività della criminalità organizzata - sottolinea -. Tuttavia, la sua rimozione rischia di essere percepita non come un passo avanti, ma come un tentativo di cancellare una parte, per quanto dolorosa, della nostra memoria storica. La vera pacificazione non si ottiene attraverso l’oblio, ma tramite la consapevolezza e la rielaborazione critica del passato. Anziché eliminare, potremmo considerare un approccio più maturo e inclusivo. Perché non trasformare “Via Città di Cutro” in un simbolo di redenzione e di impegno civico?».
L’idea che tutti i cutresi a Reggio Emilia siano mafiosi, aggiunge, «è semplicemente assurda. L’intitolazione di quella via fu fatta ben prima del processo e fu il risultato di una collaborazione storica tra il Pci di Cutro e quello di Reggio Emilia. Una decisione politica, non un “inchino” alla criminalità. Se davvero ci fosse stato un legame illecito, allora perché non è stato indagato? Dove sono le prove? Siamo oltre il confine delle opinioni: si sta riscrivendo la storia senza fondamento». Un concetto che ha sintetizzato egregiamente, sempre sul Fatto, Enzo Ciconte, storico delle mafie: «Identificare una città, una comunità con la mafia è sempre un pessimo affare».