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“Tre amiche” di Emmanuel Mouret è un buon film, ma incompiuto, perché non afferra alla gola il suo pubblico. A differenza di altri titoli francesi arrivati a portare il giusto scompiglio emotivo in un cinema spesso indirizzato dal modo italiano o americano di raccontare le emozioni, questo film punta su una medietas che è in contiguità con il modo di racconto britannico, senza tuttavia rubarne l’inarrivabile ironia; così, se un titolo come “Cattiverie a domicilio” possiede tratti di notevole originalità, “Tre amiche” ne risulta, almeno in parte, privo.
Il film vorrebbe essere corale e narrare l’evoluzione sentimentale delle tre quarantenni Alice ( Camille Cottin), Joan ( India Hair) e Rebecca ( Sara Forestier), e del loro mondo, fatto di figli, storie d’amore, vite di coppia con tradimenti veri o anche solo immaginati. Ben presto però, la scelta autoriale di una voce narrante peculiare ma invadente, sposta l’asse della storia su una sola delle tre donne.
Il personaggio di Joan sembra subire la storia, senza mai riuscire davvero a viverla fino in fondo. E risultano quindi dinamiche d’azione spiazzanti. La sua crisi emotiva, e un destino altalenante, che le riserva colpi bassi e improvvise speranze nello spazio di pochi mesi, impediscono a Joan, di fatto, di volare. Le altre due amiche, in parte irrisolte, sembrano meno frenate sentimentalmente, e più vitali. Sullo sfondo, una città poco raccontata, meno colorata di altre ma più romantica e crepuscolare, Lione. Gli angoli di strada, i corridoi di scuola, le sale del museo, come pure i parchi, e le case scelte per ambientare la vicenda, rivelano una Francia meno frequentata, più autentica, dove l’orizzonte borghese è in piccoli gesti, in desideri impalpabili come pennellate, e brevi, come un brindisi al bar.
“Tre amiche” diventa, così, e questo crediamo sia il suo merito principale, un tramite per raccontare il cambio di senso che l’esistenza subisce intorno ai quarant’anni, nel mutare della femminilità e nel senso delle relazioni tra persone, nel grigiore opprimente della quotidianità. Se le tre donne sembrano poco risolte rispetto ai loro desideri e persino nell’improvvisa mancanza di sentimenti verso gli uomini, molto sembra essere colpa della contemporaneità e di appuntamenti al buio che affidano a un algoritmo l’essenza vitale di chi si incontra.
Moderna è anche la facilità con la quale si possono costruire intrecci, imbastire bugie, rivelare cose enormi, in una passeggiata che non pretendeva di cambiare il destino di una coppia. Alcuni salti logici spengono un innamoramento tra anime affini per premiare la passione per un nuovo arrivato. Così come sorprende che nel nodo di relazioni e tradimenti mai emerga un sospetto da verificare. Forse al regista interessava l’affresco emotivo, ma sarebbero serviti colori più vividi, e contrasti più decisi, evitando di spegnere ogni palpito con i toni tenui dell’autunno. Perché nel generale depotenziamento espressivo della storia, il film brucia grandi individualità femminili e maschili, insieme ad intuizioni, come quella del numero di telefono sognato, che potevano essere condotte più felicemente.
Sarebbe stato forse preferibile contrastare l’incertezza delle relazioni del tempo presente con storie capaci di rapire dalla loro quotidianità le tre amiche lionesi, purtroppo in buona parte votate alla sospensione, all’inazione, alla fuga dal vero cambiamento. E poi, quella voce narrante maschile, che più si allontana dalla storia, più la fa sua, funzionale a un discorso sull’amore sublime, quello fatto di perdono e rinuncia, sentimento astratto e metafisico che vive della felicità della persona amata, anche oltre la propria presenza. E questo, forse, ci spinge fuori dal sentiero laico del miglior cinema francese.