Riceviamo da Gianni Alemanno e pubblichiamo nel rispetto delle norme dell’Ordinamento.

Rebibbia, 6 luglio 2025 – 187° giorno di carcere

Lunedì 30 giugno, ore 10: 30, Palazzo del Quirinale. Il Presidente Mattarella incontra i nuovi vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e approfitta dell’occasione per richiamare l’attenzione sulle drammatiche condizioni delle carceri italiane, ricordando in particolare la lunga serie di suicidi di persone detenute ( e anche di agenti della penitenziaria). Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, gli risponde a stretto giro sfogliando il solito libro dei sogni ( fatti mentre dormiva con l’aria condizionata) con nuove carceri, penitenziari prefabbricati e luoghi di detenzione riservati ai tossicodipendenti.

Ore 15, Braccio G8 di Rebibbia. Lutfim, detenuto albanese di lungo corso, mentre passeggia nel corridoio del mio reparto al secondo piano, passa davanti alla cella d’isolamento dove è recluso Kafi, libico di 29 anni, messo in isolamento quando era malato di scabbia e lì lasciato anche dopo la guarigione da questa malattia, perché si agitava troppo. Nonostante la porta sia chiusa, Lutfim nota qualcosa attraverso lo spioncino aperto. Si affaccia e vede Kafi appeso alle sbarre della finestra della cella con il corpo grondante di sangue. Si mette a urlare per chiedere aiuto, arriva Fabio Falbo (“lo Scrivano di Rebibbia”, con cui scriviamo tutte le nostre lettere alle istituzioni), si rende conto della situazione e corre al piano terra per cercare gli agenti con le chiavi della cella. Torna al secondo piano con il capoposto Luigi e l’appuntato Giovanni, che finalmente riescono ad aprire la cella, chiusa non solo con il cancello con le sbarre ma anche con il “blindo”, la porta di ferro con spioncino usata per l’isolamento. Irrompono dentro Fabio, Francesco, Andrea e, soprattutto, Peppe. Peppe è un ragazzo di un metro e novanta, testa calabrese da parte di padre e corpo da Ussaro da parte della madre austriaca. Tutti insieme sollevano il corpo di Kafi e Peppe, forte della sua altezza, riesce a tagliare il laccio delle scarpe con cui si era impiccato.

Il corpo ora giace per terra in una cella spoglia dove non c’è neanche un pezzo di carta, non respira, il sangue che esce copioso da un profondo taglio, che il tentato suicida si era inferto all’altezza della carotide. Fabio corre di nuovo al piano terra, dove c’è l’infermiera del braccio, trova Gloria, l’unica infermiera presente (una ragazza tosta dai capelli ricci, abituata a tenere a bada detenuti e fronteggiare emergenze). Si portano sopra una barella a braccio (in pratica un sacco di telo con sei manici), Gloria tampona la ferita alla carotide, cerca di rianimarlo, e tutti insieme, con altri due detenuti che si sono aggiunti (Massimo e Fabrizio), trasportano il moribondo in infermeria. Qui Gloria chiama il medico di guardia che sta al Braccio G6 (infermeria centrale), che si rifiuta di venire e chiede invece che Kafi sia portato da lui con tanto di “libro medico” (viva la burocrazia italiana). Provvedono Fabio e Gloria, accompagnati dal capoposto perché altrimenti i detenuti – vivi o moribondi – non potrebbero uscire dal braccio.

Al G6, finalmente, il medico pone fine all’agonia di Kafi con gli opportuni farmaci e sei punti di sutura alla gola. Ma la sua tragedia non finisce qui: nella sera Kafi estrae due lamette che aveva tenuto nascoste in bocca sotto le guance e si taglia di nuovo le braccia e il torace per un atto di estremo autolesionismo, che però non diventa tentato suicidio perché è già ricoverato in infermeria, dove si trova tuttora in isolamento.

Nel frattempo al Braccio G8, Giovanni, l’appuntato che aveva aperto la cella di Kafi, si è sentito male, è svenuto ed è stato portato a braccia anche lui all’infermeria. Così, quando un Fabio Falbo sudato e prossimo al collasso mi viene ad avvertire di quello che è successo e vado in infermeria a vedere la situazione, mi trovo davanti ad una scena surreale e toccante: Giovanni in divisa, steso sul lettino e circondato da un gruppo di detenuti che lo confortavano. Uno gli tiene la mano, l’altro gli trova una caramella per fronteggiare il calo di zuccheri, un altro gli parla all’orecchio. Solidarietà tra persone, al di là del ruolo, della divisa e della detenzione. Spirito di comunità tra due categorie di vittime del sovraffollamento e del caldo nelle carceri (e dell’indifferenza della politica): le persone detenute e quelle con la divisa della penitenziaria.

Ho scritto al Presidente Mattarella chiedendo che a tutti coloro che hanno partecipato ai soccorsi e sventato in extremis questo suicidio, venga dato un riconoscimento ufficiale: Fabio, Giuseppe detto Peppe, Francesco, Andrea, Massimo, Fabrizio e Lutfim, con l’infermiera Gloria. Mi risponderà? Non ha importanza, l’importante è che continui a sollecitare la politica a svegliarsi e a fare qualcosa di serio.

Nel frattempo un’altra persona detenuta, Mohamed, egiziano di 33 anni, malato di scabbia, è stata chiusa in isolamento al secondo piano, senza niente in cella, senza televisore, senza ventilatore...