«Una impostura politico-mediatico-giudiziaria». Luca Bauccio, avvocato di Claudio Foti, lo psicoterapeuta assolto nel caso “Angeli e Demoni”, riassume così l’intera vicenda giudiziaria del suo assistito. Una storia che racconta nel libro “Il lupo di Bibbiano” (Collana BeHopeBooks, 202 pagg.), disponibile da ieri su Amazon, e che rappresenta un esempio moderno di gogna giudiziaria studiata alla perfezione, scientifica, con il capro espiatorio da sacrificare per tornaconti ancora tutti da chiarire.

Claudio Foti è innocente, ma non basta, sottolinea Bauccio, che entra nella vicenda nel corso del processo d’appello, ribaltando la condanna a 4 anni inflitta in primo grado e dimostrando l’infondatezza di un’accusa portata avanti esattamente col “metodo” contestato a Foti. Un’accusa, cioè, che si tramuta in condanna attraverso una perizia che - scrivono i giudici d’appello - non applica quelle regole dalle quali, secondo la procura di Reggio Emilia, non si poteva prescindere. Non per legge, ma secondo una certa corrente di pensiero. Il paradosso sta tutto lì: mettere sul patibolo Foti per non aver “applicato”, nella sua terapia, la Carta di Noto, uno strumento per operatori nel campo dell’abuso sessuale sui minori pensato per i tribunali (dunque non per la clinica); e farlo evitando di usare proprio quel metodo che si pretendeva di consacrare.

Nel suo libro Bauccio ripercorre tutte le stazioni della personale via crucis di Foti, dipinto - anche dopo l’assoluzione - come colpevole, grazie alla pratica del giornalismo senza giornalismo: una difesa d’ufficio di tesi senza prove, in uno spasmodico esercizio di decostruzione del metodo scientifico. Bastano frasi ad effetto e social gravidi di contatti e il gioco è fatto: nell’era del relativismo giudiziario, anche un innocente può diventare colpevole, in nome del popolo del social network. Basta riciclare alcune frasi, come “insufficienza di prove”, e piazzarle sul capo d’accusa sbagliato per ridare una passata di fresco all’immagine del mostro, del lupo, che affonda le sue radici in una delle più resistenti fake news del caso Bibbiano. Ma non si tratta soltanto del calvario personale di un uomo: quello che emerge è lo strazio della giustizia, che sposta il proprio palcoscenico nella pubblica piazza, lasciando decidere al pubblico, col televoto da casa, chi è colpevole e chi è innocente. Nella lapidazione ancora in corso dell’imputato prima e dell’assolto poi, Bauccio fotografa anche l’agonia di una giustizia mediaticizzata, che non si rassegna alla verità, ma ne inventa una a uso e consumo delle masse, che non si confronta con le prove, con i fatti, con gli atti, tirati in ballo a destra e manca ma solo come vuota espressione verbale. Una verità di cartapesta, ma resistente, da contrapporre al dubbio, mai invocato in questa vicenda.

L’unica cosa che conta è il colpevole, che appare sulla scena sin da subito. Un «tipico autore per convinzione», come dice lo stesso gip (pagina 259 dell’ordinanza di custodia cautelare), un identikit che «si desume dalla saccente presunzione, priva di qualsiasi deviazione dal dubbio incrollabile di essere dalla parte della ragione, con la quale commenta durissimamente la inchiesta giornalistica nota con il titolo di Veleno; addirittura... fu organizzato una pubblica raccolta firme... sugli approcci negazionisti dell’inchiesta giornalistica». Insomma, la sua colpa sarebbe quella di aver criticato un podcast. E di avere idee, forse non condivise da tutti, forse discutibili, da discutere, ma pur sempre semplici idee.

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«Il “Lupo di Bibbiano” è la ricerca di una risposta alla domanda elementare che viene da farsi sempre quando un presunto innocente, lapidato per anni come colpevole, viene infine assolto: perché? - scrive Bauccio - Come è stato possibile? Cosa è accaduto realmente? Quali errori, quali intenzioni, quanta fede e quanta malafede hanno costruito l’ingiustizia? Perché è nata la leggenda di Bibbiano? Qual è il siero malefico che ha sovvertito ogni parametro di civiltà, che ha messo a tacere persone libere, che ha umiliato innocenti e ha negato la realtà?». E la risposta sta nello spettacolo che mette piede nella giustizia, per cercare qualcosa di «bello» da raccontare. Qualcosa che fa presa sul pubblico, perché può colpire tutti e colpisce tutti: il rischio di ritrovarsi, un giorno, i mostri in casa. La fabbrica dei mostri sta lì, a Bibbiano, epicentro del male assoluto, un buco nero che non distingue tra buoni e cattivi ed inghiotte tutti. Con la sua scrittura leggera, ma al tempo stesso pungente, Bauccio racconta dall’interno le storture della giustizia, che però ha anche gli anticorpi per autocorreggersi. Meccanismi che non appartengono, ancora, al versante mediatico, dove improvvisati investigatori e tuttologi straziano i corpi catturati dalle maglie dei processi, restituendoli al mondo con sembianze nuove. Per cosa? «Per l’ego famelico di un accusatore - risponde Bauccio -, per l’odio di un professionista rivale, per il narcisismo di aspiranti divinità da social network, per l’intraprendenza di sbrigativi segugi e giustizieri».