«Il lavaggio del cervello per dare i bimbi in affido». «Manipolavano i bambini per darli in affido agli amici». «Vergogna affido, elettroshock e bimbi plagiati». «Abusi e lavaggio del cervello ai piccoli». «Scoperta tratta di bimbi». «Bimbi affidati per soldi». «Emilia, le carte horror sui ladri di bambini a colpi di elettroshock». «Elettroshock ai bambini per portarli via ai genitori». E ancora: «Il metodo Foti», in varie salse, e altre fantasiose leggende. Le frasi che riportiamo qui sono solo alcune delle centinaia apparse sulle prime pagine dei giornali all’indomani dell’operazione “Angeli e Demoni”, messa a segno dai Carabinieri di Reggio Emilia il 27 giugno 2019.

Frasi che, nella maggior parte dei casi, riportano inspiegabilmente una fake news, che la procura di Reggio Emilia ha dovuto smentire subito: quella dell’elettroshock sui bimbi. Come e perché questa notizia sia circolata, al momento, non è dato saperlo. Quel che è certo è che è sopravvissuta, edizione dopo edizione, post dopo post. Ed è sopravvissuta anche dopo essere stata smentita categoricamente in aula, dove un esperto ha spiegato che la “macchinetta dei ricordi” è un aggeggio innocuo, che fa male come ascoltare la musica col cellulare.

L’attenzione smodata mostrata nei primi mesi si è spenta strada facendo, con la notizia costretta a mescolarsi alle altre feroci campagne mediatiche da portare avanti, senza mai confrontarsi con l’esigenza di una verifica, seppur minima, della notizia, né con la tanto vituperata presunzione di innocenza. Per questo non sorprende quanto accaduto dopo l’assoluzione definitiva dell’uomo immagine del caso Bibbiano, Claudio Foti: nessun titolone sulle prime pagine, anzi, nessun titolo proprio.

E dove c’era una traccia di questa notizia, tutto si riduceva ad un trafiletto: le dimensioni della dignità di uomo. Un ingombro ridicolo rispetto a quello dedicato alla sua mostrificazione, che per giorni, settimane e mesi è stata costruita con notizie totalmente false o leggermente storpiate, quanto basta per renderlo odioso agli occhi di chiunque. Dai suicidi di cui sarebbe responsabile alla manipolazione dei cervelli, su Foti si è detto di tutto e di più. Eppure, per conoscere il suo ruolo, sarebbe bastato fare una cosa, semplicissima: guardare le sedute incriminate. Sedute dalle quali non emerge nulla di ciò che abbiamo letto sui giornali che lo hanno trasformato nel “lupo di Bibbiano”.

Trasformare il caso Bibbiano in un processo mediatico è stato semplicissimo: è bastato tirare in ballo i bambini, il loro “bene” - sempre calcolato in base al loro essere “proprietà” di qualcuno, i genitori, a prescindere da tutto - e instillare la paura di poter finire sul patibolo, di vedersi portare via i figli. È bastato, come sottolineato dallo stesso Foti, far sentire il lettore “buono” a confronto di demoni accusati delle peggiori azioni possibili.
Per capire quanto conti la verità processuale basta riavvolgere il nastro di un anno e arrivare alla sentenza di assoluzione in appello. In quel momento i principali giornali del Paese si fiondarono non sull’imputato appena scagionato, ma sul procuratore di Reggio Emilia, su chi sosteneva l’accusa, lasciandogli il microfono a disposizione per dire: sappiamo che è colpevole e questa assoluzione, in fondo, non è un’assoluzione. «L’idea che passa - dice Luca Bauccio, difensore di Foti - è che non bisogna mai disturbare gli accusatori, anche se ci sono istituzioni superiori che mettono in dubbio il buon operato dei pm, perché con le procure bisogna sempre avere buoni rapporti». Quei giornali oggi tacciono, quasi come se non fosse accaduto nulla. Così come hanno taciuto in questi anni, mentre le aule restituivano pezzi di storia completamente diversi da quelli raccontati fino ad allora. Storie che però venivano ribadite, rispolverate e riconsegnate all’opinione pubblica, come se la verità si potesse fermare al livello degli indizi, senza alcuna necessità delle prove.
Bibbiano ha rappresentato la tempesta mediatica perfetta, con il mostro da sbattere in prima pagina, la politica a banchettare sui cadaveri per fare propaganda e le macerie sul campo. Tra queste macerie ci sono anche le garanzie, sacrificate sull’altare della convenienza. Basti pensare ad alcuni dati.

Il primo: un giudice ha scritto nero su bianco che le misure cautelari non erano più necessarie «in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», motivo per cui il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando».

Il secondo: nonostante il cuore della vicenda riguardi gli affidi, l’uomo simbolo dell’inchiesta è quello, forse, con il minor numero di capi d’accusa in assoluto, uno che con gli affidi non c’entra, ovvero Foti. Perché puntare tutto su di lui, dunque? Perché famoso, perché al centro di un dibattito feroce a livello scientifico, in un momento storico in cui la politica puntava tutto sull’altro attore in campo, cioè quello pronto a sostenere la validità di teorie antiscientifiche come la sindrome di alienazione parentale, sostenuta all’epoca anche da una proposta di legge poi rimasta chiusa in un cassetto. Per abbattere Claudio Foti si è arrivati ad attribuirgli un metodo - che non esiste -, confondendo l’ascolto del minore in Tribunale con quello nella terapia, millantando certezze sui protocolli in gioco, come se la scelta di uno al posto dell’altro rappresentasse una sorta di peccato originale dal quale era impossibile salvarsi.

Criticare Foti era possibile, certamente, ma il luogo opportuno per farlo era l’accademia. Così facendo, invece, “Angeli e Demoni” è diventato un processo alla scienza, alimentato da notizie spesso prive di qualsiasi fondamento, con la diffusione scientifica di atti coperti da segreto. In particolare le intercettazioni, estrapolate dal contesto e tagliate ad hoc, fino a far sembrare delle risate delle urla di terrore. Ma non solo: nonostante tutti, in quei giorni, si siano autoproclamati difensori dei bambini, i minori coinvolti nel caso sono stati inseguiti, identificati, sbattuti in prima serata e perfino attesi per poter strappare loro una parola di odio e di dolore contro chi li aveva “rubati” ai genitori. Ci sarebbe da chiamare in causa le carte deontologiche, ma almeno questo ve lo risparmiamo.
Parlateci di Bibbiano, urlavano tutti in quei giorni terribili. E tutti lo facevano senza sapere di cosa parlavano, aiutati da centinaia di account falsi, come spiegato da Alex Orlowski, esperto di comunicazione digitale, che in un’intervista alla Gazzetta di Reggio spiegò come «decine di migliaia di post, meme, video, per milioni di visualizzazioni, like e commenti, sono stati alimentati da centinaia di profili sospetti, gestiti con una precisa intenzionalità politica e mediatica». La rete fu invasa da immondizia, quella che è rimasta a galleggiare, nonostante tutto. Di Bibbiano, però, ad un certo punto, hanno smesso di parlare tutti. Eppure il processo a Reggio Emilia - dove sono imputate 17 persone - continua, riservando sorprese e colpi di scena. Mettendo in evidenza ciò che chiunque conosca il diritto sa da sempre: le ordinanze di custodia cautelare non sono una Bibbia. È il processo a comandare. Basterebbe seguirlo. Solo così si può parlare di Bibbiano.