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Professore avvocato Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Quali sono, a suo avviso, le motivazioni costituzionali più rilevanti dietro questa decisione?
Si tratta di una decisione molto articolata e complessa, sollecitata da un numero significativo di ordinanze di rimessione, quattordici in tutto, ciascuna con argomentazioni peculiari, a cui la Corte ha dato puntuali risposte. I passaggi salienti sono anzitutto l’aver dichiarato inammissibili le censure rivolte alla legge abrogativa, da un lato, sotto il profilo dell’art. 97 Cost., dal quale secondo la Corte non si possono far discendere obblighi di incriminazione, e dall’altro sotto il profilo dell’art. 3 Cost., ritenendo inconsistenti asserite violazione del canone di eguaglianza che fanno leve sulla scelta abrogativa come “norma penale di favore”. In secondo luogo, l’aver ritenuto viceversa ammissibili le censure prospettate evocando la violazione di obblighi derivanti da fonti del diritto internazionale pattizio, che la Corte ritiene sempre scrutinabili dall’angolatura dell’art. 117 Cost.. Anche se nel caso dell’abuso d’ufficio i giudici hanno negato – del tutto condivisibilmente – che sulla scelta di incriminazione dell’abuso d’ufficio sussistano obblighi specifici di incriminazioni, in particolare alla luce della Convenzione di Mérida: riconoscendo dunque che tale scelta, anche in ragione delle delicate valutazioni di sussidiarietà che essa evoca, è rimessa al margine di apprezzamento dei singoli stati.
La sentenza parla di evidente vuoto di tutele, ma ribadisce che la parola spetta alla politica. Pensa sia corretto parlare, oggi, di una crisi della tutela penale dei reati contro la pubblica amministrazione, anche alla luce di questa sentenza?
La scelta abrogativa – come tutte le scelte radicali – può suscitare talune perplessità, specie dall’angolatura della prevaricazione del pubblico agente. Ma bisogna anche ricordare che il legislatore è giunto a questa soluzione radicale dopo tre diverse riforme che – nel 1990, nel 1997, e nel 2020 – hanno modificato il reato, ogni volta tentando invano di assicurare un maggior coefficiente di tassatività e di determinatezza ad una fattispecie che si è trasformata in una “mina vagante” nell’ordinamento, e in una autentica “spada di Damocle” per i pubblici agenti, come la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto qualche anno fa. In ogni caso, non mi pare che possa parlarsi di “vuoto di tutele”, a fronte dei diversi rimedi comunque presenti nell’ordinamento, sotto il profilo della responsabilità erariale, disciplinare, civile del pubblico agente che agisce in violazione di legge, per fini affaristici o cagionando un danno all’amministrazione o al privato.
Alcuni ritengono che ci fosse un “obbligo implicito di risultato” legato alla lotta alla corruzione, cosa smentita dalla Corte. È un argomento giuridicamente fondato o è solo un’impostazione ideologica?
La correlazione tra corruzione e abuso d’ufficio, spesso sostenuta evocando quasi una corrispondenza biunivoca tra queste condotte, mi pare eccessiva e fuorviante, come lo è anche la vulgata che accredita l’abuso d’ufficio come “reato spia” di una retrostante pattuizione corruttiva. Corruzione e abuso della funzione, che pur possono presentare zone di tangenza, restano il più delle volte fenomeni distinti e distanti: un pubblico agente può incorrere in una violazione di legge, o anche in una scelta contaminata da “conflitto di interesse”, ma ciò non ha nulla a che fare con il mercimonio corruttivo. E la lotta alla corruzione, nel nostro ordinamento, è assicurata oggi da presidi punitivi estremamente severi, che hanno un raggio applicativo ad amplissimo spettro, non immune da applicazioni pratiche – nella prassi delle aule giudiziarie e delle contestazioni inquirenti - eccessive e ben poco ragionevoli.
Se si accogliesse l’idea che esista un “obbligo sovranazionale” di tutela penale, quale sarebbe il rischio per la sovranità legislativa nazionale?
Questo è il punto più problematico, perché la proliferazione di obblighi sovranazionali di tutela penale è ormai senza confini e senza padroni: affiorano nelle più diverse materie, dalle macroviolazioni dei diritti umani sino ai settori più specialistici del diritto penale dell’economia, ed attraverso le più diverse fonti, dalle convenzioni internazionali alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. A mio sommesso avviso, tuttavia, bisognerebbe distinguere tra obbligo ed obbligo, oltre che tra le diverse fonti: e soprattutto distinguere tra sussistenza e consistenza dell’obbligo positivo di criminalizzazione, sul piano sovranazionale, e sua “giustiziabilità” sul piano costituzionale, a livello domestico.
Lei crede che il principio dei contro-limiti — che tutela i principi fondamentali della Costituzione anche nei confronti del diritto sovranazionale — possa rappresentare una barriera legittima contro un’eventuale imposizione esterna di modelli penali?
Questo è il punto: se la riserva di legge ha ancora un significato, la legalità deve sempre rappresentare un controlimite, ed anche se a un certo obbligo sovranazionale si è dato spazio attraverso la legge di ratifica, il Parlamento deve essere pur sempre libero di rimeditare quella scelta, e persino di tornare sui propri passi, senza poter ritenere che quella opzione originaria sia un impegno irrevocabile per un futuro senza termine. O, peggio, che quella scelta sia una sorta di “delega in bianco”, sulla quale il Parlamento nazionale non possa più esercitare il proprio scrutinio: altrimenti la legalità nazionale sarebbe una formula vuota, sempre cedevole e recessiva di fronte a qualsiasi impulso repressivo che provenga dalla costellazione delle fonti sovranazionali, o dalla fucina formicolante della giurisprudenza delle Corti europee. Nelle due decisioni rese a margine della c.d. saga Taricco la Corte costituzionale aveva rimarcato proprio la legalità nazionale, nelle sue diverse sfaccettature, come controlimite: e la dottrina penalistica aveva accolto con grande favore quelle pronunce, di alto contenuto assiologico.
Esiste un rischio che, in nome della lotta alla corruzione, si giunga a una giurisdizionalizzazione eccessiva della pubblica amministrazione, in contrasto con il principio di legalità formale e la riserva di legge in materia penale?
Mi pare che il rischio si sia già verificato, e basta rileggere la sentenza della Corte costituzionale n. 8 del 2022, ancora in tema di abuso d’ufficio, per verificare quanto questo rischio sia stato percepito dallo stesso giudice delle leggi. Ma il rischio è oggi acutizzato dalla presenza di fattispecie punitive dal perimetro labile e sfumato, dotate – per usare terminologia statistica - di un altissimo coefficiente di sensibilità e di un basso coefficiente di specificità, ossia da scarsa “accuratezza”, con elevata possibilità che nello spettro applicativo ricadano anche “falsi positivi”. Basti pensare alla fattispecie che punisce la “corruzione per l’esercizio della funzione” o il “traffico di influenze illecite”, costantemente alla ricerca di equilibri legislativi o giurisprudenziali in grado di calmierare la strutturale “eccedenza applicativa”, e i rischi di “chilling effect”, a cui queste norme si prestano.
Ritiene che la magistratura possa essere tentata di “ricostruire” l’abuso d’ufficio attraverso l’uso creativo di altri reati? Sarebbe un rischio per la certezza del diritto?
Il sistema penale è strutturalmente incline alla retroazione, e una “specie” non si estingue mai del tutto, ma tende a ripresentarsi sotto altre forme. Basti pensare – per rimanere al settore dei reati contro la PA - alla storia del peculato per distrazione, eliminato nel 1990 dall’art. 314 c.p. e poi refluito nella materia criminis dell’art. 323 c.p., l’abuso d’ufficio appunto. Ma deve essere chiaro che ogni supplenza ermeneutica ed ogni dilatazione applicativa che voglia “forzare” fattispecie pensate per altri scopi di tutela per recuperare all’ambito penale condotte che il legislatore ha ritenuto – nell’esercizio della propria discrezionalità e della propria responsabilità politica – di escludere dal campo di interesse del diritto penale, sarebbe un esercizio interpretativo improprio ed inammissibile, ogni volta che si traduca nella forzatura del dettato normativo in contrasto con il divieto di analogia, confine invalicabile ad ogni esperimento ermeneutico in materia penale. Anche presunte istanze – o asserite lacune – di tutela non giustificano mai una applicazione analogica o critpanalogica della fattispecie penale, come la stessa Corte costituzionale ha sottolineato in più occasioni, e con particolare nettezza nella sentenza n. 98 del 2021.
Nel bilanciamento tra legalità formale e legalità sostanziale, questa decisione dove si colloca secondo lei?
Mi pare che salvaguardi la legalità formale, perché non ha lasciato spazio alle diverse letture ermeneutiche – spesso originali e molto creative – che pur sono state sottoposte all’attenzione della Corte: nemmeno a quelle più sofisticate, come il presunto “obbligo di stand still” che – nella tesi di alcuni giudici – avrebbe vincolato il nostro legislatore, una volta incriminato l’abuso d’ufficio, ad una sorta di divieto di regresso. D’altro canto, lo spazio concesso alla penetrazione di obblighi sovranazionali di tutela penale mi pare meriti ogni sorvegliata attenzione, se non si vuole davvero ridurre la politica criminale domestica ad epifenomeno di quella della comunità sovranazionale.
In una prospettiva più ampia, qual è oggi – dopo questa sentenza – il vero banco di prova per una riforma coerente e costituzionalmente orientata dei reati contro la pubblica amministrazione? Dove andrebbe concentrato il lavoro del legislatore per non scivolare in un approccio meramente simbolico o regressivo?
La mia opinione è che il legislatore debba puntare in modo molto più deciso ed energico su prevenzione collaborativa e trasparenza, ben più che su illusori presidi penalistici e sanzioni draconiane. Il diritto penale è sempre uno strumento impreciso, se non rudimentale, gravosissimo in termini di effetti collaterali e ben poco produttivo in termini di deterrenza, e rischia sempre di produrre costi ben superiori ai benefici. La riforma dello statuto penale della pubblica amministrazione dovrebbe ripartire dalla considerazione di una pubblica amministrazione molto mutata, che si è andata via via informando ad ampia discrezionalità ed a logiche di risultato, chiamando anche i pubblici agenti ad atteggiamenti meno formalistici e più attenti alla tutela sostanziale di diritti ed interessi: e i presidi penali, nel pieno rispetto dei principi di sussidiarietà ed extrema ratio, non possono arrivare a criminalizzare comportamenti che lo stesso diritto amministrativo considera legittimi, o persino doverosi.