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CORTE COSTITUZIONALE PALAZZO DELLA CONSULTA CONSULTA
Nessuna violazione della Convenzione di Mérida. Nessuna disparità costituzionale. E nessuna possibilità, per la Corte costituzionale, di sostituirsi al Parlamento nella scelta di abrogare un reato. Con una sentenza densissima e destinata a segnare un precedente importante, la Consulta ha dichiarato inammissibili o infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici giudici, compresa la Corte di Cassazione, contro la legge 9 agosto 2024, n. 114, che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio dal codice penale. «Né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né – ancora – i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso d’ufficio o un divieto di abrogarlo», scrive la Corte nella sua conclusione.
I magistrati avevano denunciato un presunto contrasto tra l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la Convenzione Onu contro la corruzione (Uncac), sostenendo che questa impedirebbe la cancellazione del reato se già presente nell’ordinamento al momento della ratifica (il cosiddetto divieto di regresso); l’articolo 3 della Costituzione italiana, per presunta irragionevolezza nella disparità tra condotte non più punibili e altre meno gravi ancora perseguite; l’articolo 97 della Costituzione, per il vuoto di tutela contro abusi di pubblici ufficiali, specie in presenza di conflitti di interesse. La Corte ha però smontato uno a uno questi argomenti. Sui vincoli internazionali, la Corte ha riconosciuto che le censure fondate sull’articolo 117, primo comma, della Costituzione sono ammissibili, ma non fondate. L’articolo 19 della Convenzione di Mérida – unico dedicato all’abuso di funzioni – prevede, infatti, solo un obbligo di “considerare” l’introduzione del reato. Un testo «inequivoco», scrivono i giudici della Consulta, che hanno ribadito come «la Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell’incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari».
Anche la Corte di Cassazione, nella sua ordinanza, aveva ipotizzato che l’abrogazione violasse un obbligo implicito - in virtù dell’articolo 7 della Convenzione - di mantenere standard efficaci di contrasto alla corruzione, ma i giudici costituzionali smentiscono anche questa lettura: il paragrafo 4 dell’articolo 7, infatti, impone solo un obbligo generico di impegno (“shall endeavour”) a favore di sistemi che «favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse», senza però imporre alcuna misura specifica né vietare l’abrogazione di reati già introdotti. Inoltre, l’articolo 7 fa parte del Capitolo II della Convenzione, dedicato alla prevenzione, mentre l’articolo 19 sull’abuso d’ufficio – che già non contiene obblighi vincolanti – è collocato nel Capitolo III, relativo alle misure repressive di diritto penale. Quindi «è assai arduo - scrive la Corte - ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all’articolo 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice». La Consulta respinge anche l’idea, avanzata dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’abrogazione del reato sarebbe legittima solo se accompagnata da misure compensative: «Non pare evincibile alcun obbligo di risultato, il cui conseguimento possa essere valutato da questa Corte in sede di giudizio di legittimità costituzionale», scrivono ancora i giudici. La conclusione è netta: la Corte non può «sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore». Se gli «indubbi» vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato «possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere - aggiunge la sentenza - è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte».
Sui profili costituzionali interni, la Corte ribadisce un principio consolidato: il divieto emettere sentenze che producano effetti peggiorativi per gli imputati. «L’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione», recita la sentenza. «Le esigenze costituzionali di tutela sottese all’articolo 97 della Costituzione - aggiungono i giudici - non richiedono necessariamente l’attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi». Insomma, secondo la Corte, la scelta del legislatore rientra nell’ambito della discrezionalità politica, che non può essere sindacata se non in presenza di obblighi costituzionali o internazionali precisi.