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CORTE COSTITUZIONALE PALAZZO DELLA CONSULTA CONSULTA
Abrogare l’abuso d’ufficio fu una scelta legittima. È arrivata in 24 ore la decisione della Corte costituzionale, dove mercoledì erano state discusse le 14 ordinanze di remissione con le quali altrettanti collegi – tra i quali la Corte di Cassazione – avevano sollevato la questione di costituzionalità in merito alla riforma che ha cancellato l’articolo 323 del codice penale. Una delle riforme bandiera di questo governo, che ha suscitato subito un forte contrasto tra politica e magistratura, convinta di esporre i cittadini ad un vuoto di tutele.
«La Corte – si legge nel breve comunicato licenziato dalla Consulta – ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida). Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale».
Insomma, la cancellazione del reato è compatibile con l’articolo 19 della Convenzione di Merida, che invita gli Stati a “considerare” l’introduzione di sanzioni penali per casi di abuso d’ufficio, ma – come osservato dagli avvocati intervenuti – questa formulazione non ha carattere vincolante, come invece sostenuto, tra gli altri, dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’Italia violerebbe gli standard minimi di tutela richiesti a livello internazionale.
Di segno opposto gli avvocati intervenuti in udienza, che hanno infatti richiamato la recente introduzione della nuova norma sul peculato per distrazione come misura compensativa. Tra gli interventi quelli del professore avvocato Vittorio Manes, che ha evidenziato come non esista alcun obbligo costituzionale o convenzionale di tutela penale, né un vincolo specifico di incriminazione nella Convenzione di Merida, la quale si limita a prevedere – con la formula “shall consider adopting” – un «obbligo procedurale di ponderata considerazione» della scelta legislativa. Tale considerazione, ha spiegato, deve valere «sia in entrata che in uscita», restando comunque «aperta alla discrezionalità dei singoli Stati». Qualsiasi interpretazione creativa che trasformi questo in un obbligo di incriminazione comporterebbe, ha avvertito, il rischio di «legittimare una sorta di anarchia giuridica».
Manes ha inoltre sottolineato che quando il legislatore internazionale ha davvero voluto introdurre un divieto di regresso lo ha fatto in modo esplicito, chiedendo un progresso normativo irreversibile. In questo contesto, paradossalmente, sarebbe stata proprio la dichiarazione di illegittimità della scelta abrogativa a creare «problemi in punto di responsabilità internazionale dello Stato», soprattutto per le divergenze tra la giurisprudenza costituzionale italiana e quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, specie sul tema della retroattività della lex intermedia. Se la Corte avesse accolto la questione, stando al suo ragionamento, ci sarebbe stato «l’annichilimento della riserva di legge». E questo non sulla base di un testo normativo preciso, ma di un’interpretazione giurisprudenziale, con il rischio di «sovvertire la separazione dei poteri».
Una tale decisione avrebbe reso anche la Consulta incoerente con se stessa, in particolare con la sua sentenza n. 8 del 2022, finendo per «legittimare una proliferazione incontrollata degli obblighi di tutela penale», trasformando le scelte di criminal policy italiane in «epifenomeni delle decisioni sovranazionali». Un sistema in cui «il diritto penale non sarebbe più padrone in casa propria», ma pretenderebbe di esserlo «persino in casa altrui, come nel caso del reato universale sulla gestazione per altri». Il pericolo più grande, ha concluso, sarebbe stato quello di «legittimare un diritto penale senza limiti», sganciato dai principi di sussidiarietà e extrema ratio, dove persino la decriminalizzazione potrebbe diventare illegittima sulla base di «fragili vincoli rinvenuti aliunde». Sarebbe l’avvio di una «corsa irreversibile alla punizione a ogni costo. Non sono un fan della scelta abrogativa - aveva poi aggiunto -, non la considero opportuna né convincente». Tuttavia, «una legge può essere sbagliata, ma non per ciò solo illegittima».
Da qui il monito: «Esiste un confine delicato tra opportunità politica e incostituzionalità. A volte si assottiglia, diventa una sottile linea d’ombra, ma non può essere smarrito. Farlo significherebbe cedere a una tentazione pericolosa: fare la cosa giusta per la ragione sbagliata». Secondo Guido Aldo Camera, inoltre, in gioco non c’era «solo il tema della riserva di legge ma anche quello della separazione dei poteri. I patti oggi ci possono piacere, ma potrebbero non piacerci in futuro e devo dire che se si creasse la possibilità di creare un precetto partendo da una raccomandazione che precetto non è, la regola sarebbe realmente esposta alla applicazione arbitraria».
La fattispecie di reato, dal 1930 a oggi, è stata oggetto di continue riforme, senza mai trovare una formulazione definitiva chiara e funzionale. L’ultima configurazione aveva prodotto un clima di incertezza e di paralisi amministrativa, dando origine alla cosiddetta “burocrazia difensiva”, per cui i pubblici funzionari evitano decisioni per timore di incorrere in procedimenti penali. Nessuna modifica normativa era riuscita a sciogliere le ambiguità, tanto che l’abrogazione totale è stata ritenuta l’unica soluzione possibile, anche alla luce del fatto che altre norme del codice penale coprono sufficientemente le condotte più gravi e dell’altissimo tasso di archiviazione (oltre il 90%).
Soddisfatto il ministro della Giustizia Carlo Nordio: «Esprimo la massima soddisfazione per il contenuto del provvedimento della Corte Costituzionale, che ha confermato quanto sostenuto a più riprese in ordine alla compatibilità dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio con gli obblighi internazionali - ha commentato -. Mi rammarica che parti della magistratura e delle opposizioni abbiano insinuato una volontà politica di opporsi agli obblighi derivanti dalla convenzione di Merida. Auspico che nel futuro cessino queste strumentalizzazioni, che non giovano all’immagine del nostro Paese e tantomeno all’efficacia dell’amministrazione della giustizia».
Critico, invece, il giudizio di Giuseppe Busia, presidente dell’Anac: «Le sentenze della Corte costituzionale si rispettano. Ne prendiamo atto e leggeremo le motivazioni, ma i vuoti lasciati dall’abrogazione del reato di abuso d’ufficio restano».