La pronuncia della Corte di Cassazione n. 29184/ 2025, emessa in seguito all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, ha definito con chiarezza l’assetto processuale conseguente all’ipotesi di abolitio criminis: in simili casi il giudice deve pronunciarsi con immediato proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 c. p. p., senza procedere ad alcuna verifica nel merito circa la sussistenza del fatto o la responsabilità dell’imputato.

Come saggiamente illustrato in alcuni contributi, la Suprema Corte ha ritenuto che il venir meno della norma incriminatrice esclude la necessità – e l’obbligo – di pervenire a una formula assolutoria piena (“perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”), bastando la declaratoria di estinzione del reato. La ratio risiede nel principio di legalità e nel divieto di prosecuzione dell’azione penale per fatti non più previsti dalla legge come reato.

Tuttavia, questo assetto comporta una conseguenza rilevante: l’imputato, pur prosciolto, non ottiene un riconoscimento formale della propria innocenza.

In assenza di accertamento liberatorio, rimane esposto a un rischio da danno reputazionale potenzialmente irreversibile, alimentato dall’eco mediatica del procedimento e dall’assenza di una smentita processuale piena. Il proscioglimento per abrogazione, infatti, non cancella l’ombra del sospetto, soprattutto nei contesti in cui l’inchiesta abbia assunto rilievo politico o amministrativo ovvero disciplinare.

Il nodo giuridico si colloca all’intersezione tra diritto processuale penale e tutela dei diritti fondamentali. La Costituzione, agli articoli 2 e 3, tutela l’onore e la reputazione, mentre l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo estende la presunzione di innocenza oltre la conclusione del processo, imponendo agli Stati di garantire all’ex imputato che non sia trattato come colpevole in assenza di condanna definitiva. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha affermato che ciò implica anche la possibilità di ottenere una “riabilitazione morale” mediante decisioni giudiziarie idonee a chiarire l’estraneità ai fatti.

L’orientamento della Cassazione crea quindi un vuoto di tutela: l’imputato non ha strumenti per ottenere un giudizio liberatorio dopo l’abolizione della fattispecie incriminatrice, rimanendo in una condizione di proscioglimento “tecnico” ma non pienamente satisfattivo sotto il profilo sostanziale.

Cosa fare? Sul piano normativo, la soluzione – ad avviso di chi scrive – potrebbe consistere in una modifica dell’articolo 129 c. p. p., prevedendo che, in presenza di elementi chiari e univoci negli atti, il giudice possa – o debba, su istanza dell’imputato – pronunciare assoluzione nel merito anche in caso di abolitio criminis. Una sorta di rinuncia alla declaratoria ex art. 129 c. p. p. “secca” come avviene per la rinuncia alla prescrizione. Che sia sempre il Legislatore a normare. Ciò permetterebbe di armonizzare l’esigenza di immediatezza del proscioglimento con il diritto alla piena riabilitazione. Si provi a osservare il quadro comparato, mirato al “punto dolente” italiano: cosa succede quando l’incriminazione viene abrogata e l’imputato chiede una tutela “riabilitante” oltre al mero proscioglimento tecnico.

In Inghilterra, l’assoluzione o l’annullamento della condanna non comportano automaticamente un accertamento di “innocenza in fatto”. Lo si vede chiaramente nella disciplina dell’indennizzo per “miscarriage of justice” ( s. 133 CJA 1988): per ottenere il compenso, l’innocenza deve risultare oltre ogni ragionevole dubbio, soglia molto alta. In Allen c. Regno Unito ( Grande Camera, 2013) la Corte EDU ha chiarito che rifiutare il compenso non viola, di per sé, la presunzione d’innocenza se i giudici evitano formulazioni che insinuino colpevolezza post assoluzione. In Nealon & Hallam ( Grande Camera, 11 giugno 2024), la Cedu ha confermato la compatibilità dello standard britannico con l’articolo 6 § 2 della Convenzione europea dei diritti umani: la presunzione d’innocenza tutela l’“innocenza legale”, non impone allo Stato un accertamento positivo della “innocenza in fatto” ai fini risarcitori. In sostanza: nessun obbligo di una pronuncia riabilitante piena dopo la chiusura del caso.

In Francia, l’azione penale si estingue per abrogazione della legge penale (art. 6 Cpp). Dopo l’abrogazione, i fatti perdono il carattere delittuoso e non si può più condannare, anche per fatti anteriori (retroattività in mitius: art. 112 1 Cp). L’esito tipico è l’estinzione dell’azione; non è imposto al giudice un ulteriore giudizio “riabilitante” sul merito. In giurisprudenza si ribadisce che l’abrogazione fa venir meno la base punitiva: l’effetto è processuale sostanziale, non “dichiarativo d’innocenza”.

In Germania, quando sussiste un impedimento processuale (tra cui la sopravvenuta impraticabilità della punizione), il procedimento può essere archiviato senza entrare nel merito (§ 206a StPo); si tratta di una “decisione di processo”, non di colpevolezza/ innocenza. Non esiste, in sede penale, un rito generale per ottenere una “sentenza di assoluzione nel merito” a fini reputazionali dopo l’archiviazione per ostacolo processuale. La dottrina e la prassi conoscono l’interesse alla riabilitazione (rehabilitationsinteresse) e, in ambito amministrativo, forme di azione dichiarativa post estinzione ( es. fortsetzungsfeststellungsklage) per chiarire la legittimità di atti lesivi, ma ciò non equivale a un freispruch penale “riabilitante”.

L’articolo 2 del Codice penale spagnolo prevede l’applicazione retroattiva della legge penale più favorevole: se il fatto cessa di essere reato, non si punisce. La LeCrim, art. 637, consente il sobreseimiento libre quando “il fatto non è costitutivo di reato”. È la via tipica se la fattispecie è abrogata: si archivia definitivamente.

Anche qui, non c’è un obbligo strutturale di “pronuncia riabilitante” sul merito storico fattuale dell’accusa.

La proposta di innesto nostrano sull’art. 129 c. p. p. ( facoltà/ obbligo, su istanza, di assoluzione nel merito quando dagli atti emerga l’evidenza liberatoria) colmerebbe una lacuna senza “spacchettare” il principio di legalità, allineandosi al meglio comparato (Spagna: decisione qualificatoria; Germania: istanze riabilitative extra penale) e alla lettura Cedu su Allen/ Nealon Hallam (nessun obbligo di certificare l’innocenza, ma divieto di insinuare colpevolezza post proscioglimento).

Sul piano strategico, un simile intervento risponderebbe sia a esigenze di equità sostanziale, sia a istanze di prevenzione del danno reputazionale, oggi sempre più rilevante nell’ecosistema informativo e digitale. In mancanza di una formula piena, l’ex imputato rimane ostaggio delle narrazioni mediatiche pregresse, con effetti che possono incidere sulla sua vita professionale, politica e sociale ben oltre la vicenda giudiziaria.

L’azione da intraprendere qui, dunque, non può limitarsi a una riflessione teorica: occorre predisporre una modifica legislativa, In tal modo, l’intervento non solo colmerebbe una lacuna normativa, ma restituirebbe equilibrio tra la giustizia formale e quella percepita, garantendo all’imputato prosciolto la possibilità di ottenere un riconoscimento pieno della propria innocenza. L’attuale disciplina realizza sì giustizia formale, ma sacrifica la giustizia sostanziale. L’intervento normativo da compiere colmerebbe la lacuna, garantendo un bilanciamento tra principio di legalità e tutela dell’onorabilità.

La questione non è solo giuridica, ma di sistema: incidere sulla percezione sociale del proscioglimento significa restituire all’ex imputato non solo la libertà da un procedimento, ma anche la dignità piena.