La questione centrale riguarda il destino della riserva di legge e la possibilità che la sovranità e la discrezionalità del Parlamento in materia penale possano essere sacrificate in nome di un presunto obbligo di tutela penale. Si può riassumere così il nocciolo fondamentale della discussione di questa mattina davanti alla Consulta, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, sostenuta, davanti ai giudici delle leggi, da ben 37 avvocati, tra i quali il professor Vittorio Manes, Vincenzo Maiello, Giovanni Grasso, Giovanni Flora, tutti convinti della legittimità della scelta del governo di abrogare un reato già presente nel Codice Rocco. Sono quattordici le ordinanze di rimessione finite davanti alla Corte costituzionale, con le quali si chiede ai giudici di «fare qualcosa che la Corte non può fare» - come aveva argomentato il professor Manes a Reggio Emilia nel processo “Angeli e Demoni”, dove la richiesta di incidente costituzionale fu respinta - e di scavalcare persino la legge istitutiva della stessa Consulta, che non consente di sindacare il merito della singola scelta politica.

Il cuore della questione riguarda la compatibilità dell’abrogazione con i principi costituzionali – in particolare gli articoli 3, 11, 97 e 117 della Costituzione – nonché con gli impegni internazionali assunti dall’Italia, in primis la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione del 2003, nota come “Convenzione di Merida”, ratificata dal nostro Paese nel 2009. Secondo la Cassazione, che ha promosso uno degli incidenti di costituzionalità, l’eliminazione del reato rischia di compromettere l’intero sistema di prevenzione e contrasto agli illeciti nella pubblica amministrazione. A essere criticato non è solo il venir meno della norma incriminatrice, ma il fatto che l’abrogazione non sia stata accompagnata da strumenti alternativi di controllo o di sanzione disciplinare, generando un possibile vuoto normativo.

L’elemento di maggiore tensione riguarda l’articolo 19 della Convenzione, che invita gli Stati aderenti a considerare l’introduzione di sanzioni penali per condotte corrispondenti all’abuso d’ufficio. La formula utilizzata – “shall consider” – lascia sì margini di discrezionalità, ma, secondo la Cassazione, ciò non esonera lo Stato dall’obbligo di garantire comunque un livello minimo di tutela contro gli abusi nel settore pubblico. La riforma Nordio, contenuta nella legge 114 del 9 agosto 2024, ha eliminato tale presidio senza prevedere, secondo gli ermellini, misure sostitutive efficaci. Non secondo gli avvocati che difendono la scelta del governo, data l’introduzione, a stretto giro, di una nuova norma sul peculato per distrazione, pensata per coprire eventuali vuoti lasciati dall’abrogazione del 323 cp, rispettando i requisiti europei per la protezione degli interessi finanziari. Secondo i giudici di legittimità, però, l’Italia rischia di non adempiere agli obblighi internazionali assunti e di abbassare gli standard complessivi di protezione contro la corruzione e il malgoverno.

Tanti e puntuali gli interventi durante l’udienza di ieri, tra i quali quelli dell’avvocato Manlio Morcella, che ha sollecitato il giudice delle leggi a valutare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea. Nel suo ampio intervento d’apertura, il professor Manes, invece, ha segnalato molti profili sulla base dei quali la questione di costituzionalità deve ritenersi inammissibile o infondata, mettendo fortemente in dubbio, anzitutto, l’idea che possano esistere, di per sé, obblighi di tutela penale, che costituisce un’eccezione assoluta: il principio di sussidiarietà stabilisce infatti che la tutela penale non è mai l’unico strumento possibile. E ciò vale tanto più in un caso come quello in esame, dove l’asserito obbligo si vorrebbe far derivare da uno strumento di diritto internazionale pattizio (la Convenzione di Merida, appunto) che, in realtà, non prevede affatto come vincolante l’introduzione di una specifica fattispecie di abuso d’ufficio. La prova di ciò sta nella varietà di risposte legislative fornite dagli ordinamenti degli Stati: alcuni hanno previsto norme specifiche, altri – come la Germania – non contemplano affatto una fattispecie penale dedicata all’abuso d’ufficio. E anche la tesi secondo cui non esisterebbe un obbligo di tutela penale, ma un obbligo di stand-still - in base al quale una volta prevista una tutela penale, non si potrebbe più tornare indietro -, appare assai sorprendente. Essa implicherebbe infatti vincolare le scelte punitive e discrezionali del Parlamento a una sorta di fissità irreversibile, che paralizzerebbe l’evoluzione del diritto penale, ancorandolo a scelte fatte non solo prima dell’entrata in vigore dell’articolo 117 della Costituzione o prima della Convenzione di Merida, ma addirittura a scelte di incriminazione che rimandano al Codice Rocco. Come se il legislatore italiano avesse auto-vincolato ab aeterno il proprio ordinamento. In realtà, ciò che è in gioco è proprio la discrezionalità del Parlamento nelle scelte legate alla sussidiarietà del diritto penale, quindi in una materia che è, a tutti gli effetti, eminentemente politica. Il diritto penale è, infatti, solo uno dei segmenti dell’intero sistema di tutela, che comprende, ad esempio, anche profili di responsabilità erariale, disciplinare, oltre a profili risarcitori civilistici. La decisione sull’adeguatezza dello strumento penale non può che spettare all’organo politico. Insomma, quella a cui sono chiamati i giudici costituzionali è una vera e propria scelta di campo.