Mai, in nessun momento, Claudio Foti, lo psicoterapeuta condannato per aver provocato con dolo un disturbo borderline e depressivo in una ragazza all’epoca 17enne, ha pronunciato la frase «è stato tuo papà». Secondo l’accusa, Foti avrebbe instillato nella giovane donna la convinzione che sia stato il padre ad abusare di lei da bambina, portandola ad odiarlo. Un dato che però non emerge da nessuna delle registrazioni delle sedute svolte con la ragazza.

Per Foti, condannato a novembre 2021 in abbreviato a 4 anni nel processo “Angeli& Demoni”, oggi è prevista la conclusione del processo d’appello. E sono fondamentali, nel suo percorso giudiziario, le circa 20 ore di registrazioni degli incontri con Paola (nome di fantasia), durante le quali neanche una volta lo psicoterapeuta attribuisce le presunte violenze subite dalla giovane al suo genitore.

La seduta con la madre. Il primo incontro di Foti è con la madre di Paola, che racconta degli abusi subiti dalla figlia. Ma soprattutto racconta del pessimo rapporto della ragazza con il padre, determinato, soprattutto, dal fatto che l’uomo non abbia creduto alla figlia quando a quattro anni ha raccontato dei presunti abusi subiti da parte di un amico del padre. «Lei ne risente molto di questo», spiega la donna. Vittima anche lei di episodi di violenza, da parte del fratello e dell’ex marito, consumati davanti agli occhi di Paola e della sorellina.

L’ex marito, spiega la donna, «ha minacciato sia me che mia figlia, ma anche il servizio (sociale, ndr) in sé», dicendo «ve la faccio pagare». Questo è il contesto in cui nasce la terapia. Le sedute con Paola. La giovane si trova per la prima volta faccia a faccia con Foti il primo marzo 2016. Il punto di partenza è uno stato d’animo carico di sofferenza, la giovane dice di sentirsi «triste e pesante», tanto da essere convinta che la sua vita non valga «niente». «Se morissi non importerebbe», dice piangendo. Una sensazione che scema di seduta in seduta, tanto che già alla seconda si sente più tranquilla, per aver capito «che non è così difficile risolvere i problemi». Racconta poi di non vedere il padre da mesi e del suo conflitto interiore: «Da una parte vorrei averlo nella mia vita, dall’altra non voglio vederlo più». E anche se a volte avrebbe il desiderio di «mollare tutto e dire basta», di morire, altre sostiene di tenere «un po’ alla» sua «vita».

Durante la terza seduta Paola parla ancora del padre, al cui affetto dice di non credere. Ciò perché le ricorda «l’abbandono». Ma soprattutto, teme che possa aver fatto male a sua sorella, «tipo… violentata». Foti non la incoraggia in questo senso, ma cerca di capire il perché di questa sensazione, che deriva da un ricordo: sua sorella e suo padre abbracciati sul letto. Un atteggiamento normale, fa notare Foti, ma non per Paola. Che associa l’uomo - che spesso chiama per nome - «alla prima violenza che io ho subito», ovvero le molestie ad opera dell’amico di suo padre. «Sono frustrata, perché vorrei ricordare», spiega, passando poi alla violenza subita a 13 anni da un ex fidanzato, rispetto alla quale Paola sente di essere colpevole. «Tu non c’entri niente», la tranquillizza Foti. Ma per la giovane «sarebbe più difficile dare la colpa agli altri». E prima di andare dice: «L’unica cosa bella di venire qua è che comunque dopo mi sento meglio». Durante la quarta seduta Paola prova a dare forma ai suoi problemi: «Il non riuscire a superare le cose. Vorrei ricordare senza stare male». Foti parla molto, ma chiede sempre conferma sulle sue interpretazioni. E Paola conferma tutto, andando via «più leggera». Rimane, però, il buio, da cui ha paura di non uscire, e di cui parla nella quinta seduta. Si sente appesantita, perché vicina a qualcosa, al recupero di un ricordo spiacevole. Ma Foti specifica: «Non sei obbligata. .

Puoi vivere la tua vita anche senza recuperare il tuo passato». Il percorso di Paola è un crescendo, lo stato d’animo continua a migliorare. Tant’è che Paola, nella sesta seduta, parla di gioia e di luce. Nella seduta successiva nomina nuovamente il padre. Parte da una violenza subita dall’ex fidanzato, «sconvolgente», ma non «la sofferenza più grande» del suo passato.

«L’unica persona per cui io provi rabbia è mio padre. A lui do la colpa di ogni cosa. Ecco perché non sono arrabbiata con nessun altro». Quindici giorni dopo, Paola dice di stare bene ma ammette l’odio per suo padre, un sentimento che prova perché «ha preferito credere al suo compare (l'amico, ndr) invece che a sua figlia». Foti prova a creare una situazione immaginaria: un incontro tra i due, ma visti i sentimenti espressi «non te lo auguro». «Non mi sentirei bene in sua presenza», spiega Paola, ammettendo di provare ansia, preoccupazione e incertezza. Ed è questo che Foti le augura di non provare nella realtà. Durante la nona seduta Paola ribadisce che non le interessa rivedere il padre. «Per me potrebbe anche morire sinceramente e non mi importerebbe…». Non è mai Foti a proporre questo argomento e mai in questi termini. Ma Paola, nella seduta del 20 settembre, insiste: teme che faccia male alla sorella, «ogni tipo di male. Penso ce ne abbia fatto già abbastanza, quindi non vedo il motivo di rivederlo». Ma prima di andare via, ammette di stare «meglio di come stavo prima di iniziare questo percorso».

La seduta del 27 settembre. Ancora una volta è lei ad aprire la conversazione sul padre. «Non è mai stato un vero padre, alla fine», dice, parlando dell’abbandono. La cosa più dolorosa è non essere stata creduta. Una «batosta», soprattutto se associata al fatto che, da bambina, il padre l’ha lasciata a dormire a casa dell’amico, «perché non aveva voglia di venirmi a prendere». Il ricordo dell’abuso è vago, Paola ricorda la sensazione di disagio a stare a casa di quell’uomo. «Ho sempre cercato di dire a mio padre che non ci volevo andare. (...) Però lui non prendeva ragione ed è anche questo che mi ha fatto arrabbiare».

Ed è questo, forse, il momento in cui Foti azzarda di più rispetto alla figura del padre: «Ti capisco, invece di proteggerti addirittura ti portava, ti consegnava nelle mani di una persona che approfittava di te». Parole alle quali Paola risponde sicura: «Sì, esatto». La giovane ha paura di essere destinata a subire sempre abusi nella vita. Ma la parte autodistruttiva, quella che punta alla morte, «è molto diminuita, devo dire». La seduta con l’Emdr. È il 4 ottobre l’unica seduta in cui Foti prova a rievocare il ricordo dell’abuso infantile con la tecnica dell'Emdr. Non c’è nessuna “macchinetta”, nessun presunto “elettroshock”: Foti si limita a muovere le dita davanti ai suoi occhi. Paola, nel rievocare quel momento, dice di confondere la figura del compare con quella del padre. Una cosa che in passato le è già successa «abbastanza spesso», ovvero ben prima dell’inizio della terapia. E Paola, spontaneamente, dice di avere due parti in conflitto: una che le dice che potrebbe essere suo padre ad averle fatto del male e una che dice che non è possibile. Un argomento che Foti non incoraggia, tant’è che mai attribuisce al padre responsabilità per quell’abuso.

La ultime due sedute. Paola, al netto del presunto disturbo depressivo diagnosticato dai periti del tribunale, dice di non pensare più alla morte. «Prima comunque stavo sempre molto male su queste cose che mi sono successe. Adesso non lo sento più questo dolore, cioè c'è però non così tanto da pensare di uccidermi». È all’ultimo incontro, che è lei a chiedere, dice di aver paura «che possa essere stato mio padre». Ma Foti non la incoraggia e non approfondisce. Si lasciano con una certezza: «Vivo meglio il rapporto con gli uomini», afferma. E va via «con serenità».