Forse non è un inedito assoluto. Non è nuova, la magistratura, nel denunciare l’aggressione mediatica ai giudici. Lo ha già fatto in precedenti occasioni. Sia quando le sentenze non assecondavano «le passioni del pubblico», come le definisce giustamente il segretario del “sindacato”, Rocco Maruotti, sia quando i magistrati in generale, pm inclusi, sono finiti sotto inchiesta come l’ex procuratore di Pavia Mario Venditti. È una scoperta, però, per l’associazione presieduta da Cesare Parodi, constatare che la furia cieca della giustizia- spettacolo può comportare un grave handicap nella battaglia referendaria sulla separazione delle carriere.

Si sente scoperto, l’ordine giudiziario, e assai memo popolare, nella campagna per il No alla riforma Nordio, quel “No” che le toghe sperano salti fuori dall’urna della consultazione confermativa. Sia appunto perché un caso alla Garlasco relega i magistrati fra le categorie non sempre gradite all’opinione pubblica, sia perché sfidare la politica in una competizione elettorale vera e propria è un inedito assoluto, questo sì, per l’Anm e le sue correnti.

Già due settimane fa a Genova, al congresso delle toghe progressiste di “Area-Dg”, la magistratura si era misurata con l’altezza di una sfida mai sperimentata prima. A dispetto di una narrazione entrata nelle memoria di chiunque segua la politica, non c’è paragone fra le battaglie condotte dall’Anm in passato e la trincea del referendum sulla riforma Nordio. Intanto c’è una difficoltà intrinseca nell’attacco a una legge costituzionale approvata dal Parlamento secondo le procedure previste dall’articolo 138. Ma soprattutto, la magistratura italiana si trova per la prima volta di fronte a una campagna politica pura, a una ricerca di consenso fra i cittadini che non sia intrecciata con le vicende giudiziarie.

Non ci si lasci ingannare dall’epopea dello scontro fra Anm e centrodestra berlusconiano dei decenni passati. È vero che anche all’epoca erano in ballo modifiche dell’ordinamento, come la riforma Castelli del 2005, o del rito penale. Ma c’era pur sempre un avversario, il Cavaliere appunto, a cui era facile contestare l’ispirazione ad personam di quelle leggi. Il fatto che gli avversari del centrodestra, magistrati inclusi, potessero denunciare, negli interventi legislativi, una volontà (a volte reale e non solo presunta) di salvare il capo, di difendere il capo del governo da indagini e processi, bastava a giustificare l’intrusione dell’Anm nella contesa politica.

Le toghe erano legittimate, insomma, a una triangolazione con il centrosinistra proprio perché dietro la materia del contendere c’erano vicende giudiziarie vere e proprie. Sebbene si trattasse di una situazione del tutto anomala, sebbene il protagonismo attribuito ai magistrati a partire dagli anni Novanta fosse scaturito dallo strappo di Mani pulite, il gioco, all’epoca, era più facile. C’era una strada spianata dalle contraddizioni,

vere e presunte, di una certa parte politica. Stavolta è tutto diverso. E a intuirlo subito, con indiscutibile lucidità, è stato proprio un magistrato della progressista “Area”, Marco Patarnello, poi eletto nel “parlamentino” (lo chiamano, con una certa sovietica enfasi, “Comitato direttivo centrale”) dell’Associazione magistrati. Prima di essere massacrato da raffiche di anatemi, Patarnello aveva in realtà espresso, sulle chat togate, una verità semplicissima: Giorgia Meloni è un avversario assai meno vulnerabile, per la magistratura, perché non ha guai giudiziari. È evidente: stavolta non c’è un Berlusconi stritolato dalle grane processuali ( spesso ascrivibili a una logica di accanimento, certo), e quindi non si è di fonte a un governo e a una maggioranza parlamentare delegittimati nel riformare la giustizia.

Stavolta è chiaro a tutti, e certamente agli elettori, che Giorgia Meloni e il suo ministro Carlo Nordio mettono mano alle carriere dei magistrati per ragioni in ogni caso diverse dall’interesse personale in senso stretto. Ci saranno logiche, per la presidente del Consiglio, riconducibili magari al fatto di essere la prima esponente di destra al vertice di un governo repubblicano. C’è dunque in gioco l’esigenza di acquisire una legittimazione e un riconoscimento attraverso una riforma costituzionale. Ma se l’Anm andasse a raccontare che Meloni e Nordio vogliono il “divorzio” fra giudici e pm per salvarsi da qualche processo, gli elettori minimamente informati si farebbero una grassa risata.

È chiaro dunque che stavolta i magistrati si lanciano nell’agone politico senza rete. Sono davvero una parte in lotta come le altre. Non sono i salvatori delle patria scesi temporaneamente dall’empireo giudiziario per disarmare quei manigoldi dei politici che, oltre a essere processabili, hanno pure la almeno apparente sfrontatezza di cucirsi riforme su misura. Stavolta non è così: ci si batte in campo aperto. Come un qualsiasi partito (e qui si vede con chiarezza l’altra anomalia).

Ecco, visto che è così, quel certo nervosismo che serpeggia fra le correnti e che oggi, all’assemblea dell’Anm in Cassazione, potrebbe manifestarsi ancora, ha una spiegazione più che logica: la magistratura associata ha deciso di scendere in un campo nel quale è oggettivamente fuori contesto. Sembra abbastanza insensato che un corpo di alti funzionari dello Stato si batta per fermare una legge approvata dall’organo costituzionale che, nello Stato, rappresenta la sovranità popolare. Un assurdo. Che ora, anche nelle analisi e nelle contraddizioni interne all’Associazione magistrati, viene inevitabilmente fuori.