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CASSAZIONE
Nel dibattito apertosi attorno al ruolo dei magistrati nei comitati referendari, il nodo giuridico di fondo è uno: se tali comitati possano essere considerati “soggetti politici” e, in tal caso, se la partecipazione dei magistrati in carica a essi configuri una violazione del divieto costituzionale di appartenenza a partiti politici. La questione, sollevata da Enrico Costa e accennata anche dal professor Oliviero Mazza, tocca il cuore del rapporto tra indipendenza della magistratura e libertà di espressione politica dei singoli magistrati. Il punto di partenza è l’articolo 98, terzo comma, della Costituzione, secondo cui «si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati».
La norma, dunque, non prevede un divieto automatico ma attribuisce al legislatore il potere di introdurlo. Tale potere è stato esercitato con il decreto legislativo n. 109 del 2006, che qualifica come illecito disciplinare l’iscrizione a partiti politici o la partecipazione “sistematica e continuativa” alla loro attività. La ratio è evidente: preservare l’imparzialità e l’apparenza di indipendenza della funzione giudiziaria, evitando che il magistrato appaia schierato su temi di natura politica. Parallelamente, le norme che regolano i referendum — gli articoli 75, 132 e 138 della Costituzione e la legge n. 352 del 1970 — prevedono la possibilità di costituire comitati promotori e comitati per il Sì o per il No, ossia organismi organizzati per sostenere una determinata opzione di voto.
La disciplina successiva sulla comunicazione politica, in particolare la legge n. 28 del 2000 e le delibere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, li qualifica come “soggetti” della comunicazione politica, dotati di diritti e spazi nei mezzi di informazione analoghi a quelli dei partiti. È su questo piano che nasce la tensione: nel momento in cui un comitato referendario è considerato “soggetto politico” ai fini della propaganda e della comunicazione elettorale, la partecipazione attiva di magistrati in carica — soprattutto se sistematica, pubblica o dirigenziale — rischia di collidere con il divieto sancito dall’articolo 98 e dal decreto 109.
Non esiste, va detto, una norma che equipari in modo esplicito i comitati referendari ai partiti politici. Tuttavia, la sostanza dell’attività di tali organismi è di natura politica: promuovono una linea, cercano consenso, organizzano eventi e comunicazione di massa per influenzare l’esito di una consultazione popolare. È dunque difficile negare che si tratti di soggetti che operano nel campo dell’azione politica organizzata. Da ciò consegue che, se un magistrato in servizio partecipa con continuità o ricopre ruoli pubblici all’interno di un comitato, la sua condotta possa essere interpretata come partecipazione politica rilevante ai fini disciplinari.
La giurisprudenza costituzionale e disciplinare non offre ancora un precedente specifico su questo punto, ma la linea interpretativa più prudente è quella di estendere il concetto di “partecipazione sistematica” anche a forme associative o comitati che perseguano finalità politiche. In altre parole, il magistrato può certamente esercitare i propri diritti civili, ma non può farlo in modo tale da compromettere — anche solo in apparenza — la neutralità della funzione giudiziaria. Un conto è l’adesione personale a un’idea o la firma occasionale di un appello, altro è l’impegno continuativo in un organismo che svolge propaganda politica.
Il tema si inserisce in un contesto più ampio, in cui la magistratura è chiamata a mantenere una rigorosa distanza dalle contese politiche, specie quando esse riguardano la struttura stessa della giurisdizione, come nel caso della separazione delle carriere. La partecipazione dei magistrati a un comitato che si schieri pubblicamente per una determinata opzione di voto rischia di trasformarsi, agli occhi dell’opinione pubblica, in un atto di militanza. Ed è proprio questo rischio reputazionale — prima ancora che disciplinare — a minacciare la fiducia dei cittadini nell’imparzialità dei giudici. Il confronto con altri ordinamenti conferma la delicatezza del tema.
In Francia e Germania la partecipazione dei magistrati ad attività politiche è fortemente limitata, mentre nel Regno Unito le regole di condotta vietano qualsiasi coinvolgimento che possa compromettere la percezione di neutralità del giudice. L’Italia, con il meccanismo dell’articolo 98, si colloca in una posizione intermedia, affidando al legislatore e agli organi di disciplina la valutazione concreta delle condotte.
In definitiva, la costituzione o l’adesione di magistrati a comitati referendari non è di per sé vietata, ma può divenire problematica quando l’attività del comitato assuma un profilo marcatamente politico e la partecipazione del magistrato sia pubblica e continuativa. È in quel momento che la linea di confine tra libertà personale e dovere d’imparzialità si assottiglia fino a scomparire. La questione, che unisce profili costituzionali, deontologici e reputazionali, merita dunque un approfondimento serio e non ideologico: non per limitare la libertà dei magistrati, ma per preservare — anche nelle forme della democrazia diretta — la credibilità della giurisdizione come potere terzo e indipendente.










