La maggioranza, quasi la totalità, dei magistrati ha scioperato pochi mesi fa per la proposta di riforma costituzionale, oggi in fase molto avanzata sulla separazione delle carriere che spezza la unicità della magistratura. Perché lo hanno fatto, convintamente e in modo così corale? Si tratta di persone attente – nelle proprie capacità-, questo è il loro compito alla tutela dei diritti ed alla risoluzione delle liti, generalmente stimati, considerati equilibrati e seri. Ma hanno posto in essere questa forma estrema di protesta, anzi di proclamazione dei valori in cui credono. Non meritano almeno che ci si chieda perché lo hanno fatto? Cercare di spiegarlo richiede, da parte di chi vuole comprenderlo, una apertura mentale ed una voglia di capire, quindi, chi ha pregiudizi politici, chi crede che i magistrati siano una casta che vuole solo conservare privilegi o intendano fare una protesta politica, può smettere di leggere quanto scrivo.

Perché se la nostra Costituzione del 1948 - che ora si intende modificare - creò un assetto secondo il quale giudici e pubblici ministeri condividono la stessa carriera (stesso concorso, possibilità di passare da giudice a pm e viceversa sia pur già oggi in casi eccezionali, stesso organo di governo autonomo così da sottrarli ad influenze politiche e di gruppi di pressione esterne, persino da sollecitazioni gerarchiche - la cosiddetta indipendenza interna), una fondata ragione doveva pur esserci. E le ragioni sono sia di natura istituzionale che di natura politica.

Sotto il primo profilo, cioè quello che riguarda l’assetto ed il ruolo istituzionale del magistrato, certamente la ragione per cui storicamente in Italia i giudici ed i pubblici ministeri fanno parte da sempre dello stesso ordine (e detta collocazione è stata confermata anche dalla Costituzione repubblicana) è data proprio dal ruolo che il pubblico ministero svolge. Ciò che viene chiesto al pubblico ministero infatti non è una generica difesa della collettività, compito proprio della polizia intesa come funzione svolta dai vari organismi preposti (polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, ecc.), ma una ricerca imparziale della verità attraverso un rigoroso rispetto delle regole, l’applicazione delle leggi conformemente alle indicazioni che si possono trarre dalla Costituzione e dalla normativa europea. Il pubblico ministero, insegna la Corte costituzionale, «non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale dell’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia».

L’espressione “cultura della giurisdizione” è infatti il concetto su cui ruota l’intero sistema giudiziario. Può essere definita anche come capacità di non farsi condizionare per gli esiti del processo, forza di procedere secondo le regole anche se il risultato non è quello che ci si aspettava o che non viene percepito come giusto dalla collettività. Ma sempre quello indicato dal Legislatore che lo ha scritto nella Legge. La Costituzione del 1948 ha infatti voluto un pubblico ministero che applicasse la legge come organo di giustizia, e che, come il giudice, avesse la legge come unico faro. Un pubblico ministero «all’americana», portatore di interessi particolari (quelli del governo federale, dello Stato in cui è stato eletto o designato, ecc. - quante volte nei film americani abbiamo ascoltato la espressione “lo Stato contro Tizio imputato”), è solo organo di accusa e non ha certo necessità di essere imparziale. Cosa che non è nel nostro Paese dove la parola stessa pubblico ministero - ci si rifletta indica un soggetto che tutela la intera collettività, ivi compreso l’imputato.

Ancora maggiore preoccupazione desta il secondo profilo, quello più strettamente politico, vale a dire il timore che, se non oggi, domani, le garanzie di indipendenza del pubblico ministero, una volta operata la separazione dai giudici, potrebbero venir meno creando i presupposti perché l’attività del pubblico ministero sia politicamente indirizzabile dalla maggioranza politica di turno, magari usata come arma contro chi è scomodo al potere di turno. Queste le considerazioni che fece anche chi scrisse la nostra Costituzione.

Durante il fascismo il pubblico ministero dipendeva non solo dal ministro della Giustizia, ma indirettamente anche dal ministro dell’Interno da cui dipendevano gli organi di polizia e ciò causò distorsioni gravissime nel sistema giudiziario. Anche per questo il Costituente del 1948 volle sanare questi danni confermando una carriera unica con un unico organo di garanzia - il Consiglio superiore della magistratura posto sotto la diretta presidenza del Capo dello Stato - a tutela della autonomia e dell’indipendenza della magistratura tutta, estendendo così ai pubblici ministeri anche formalmente le medesime garanzie previste per giudici. Ed ancora, perché non scrivere nel nuovo articolo della Costituzione (che si vuole modificare) che il pubblico ministero gode delle stesse garanzie di indipendenza del giudice? Tutto questo genera una legittima preoccupazione non - come si tende a far credere - per presunti privilegi dei magistrati (quali sarebbero?) ma per una modifica dell’assetto istituzionale che, in tempi anche brevi, potrebbe finire per incidere significativamente sui diritti di ogni cittadino. Val la pena correre un tal pericolo? I magistrati, con la propria protesta hanno voluto sollevare questa domanda. Ed ognuno dovrà elaborare la propria risposta nella consapevolezza delle ricadute che un riforma, che si allontana dalle regole poste dal Costituente del 1948, potrebbe avere.