Il dibattito sulla proposta di legge “Zanettin” offre l’occasione per riflettere sulla nostra vita sociale. Il terreno non è quello delle intercettazioni disciplinate dagli articoli 266 e ss. c. p. p., bensì quello dell’articolo 254- ter c. p. p., che regola l’acquisizione di dati informatici e comunicazioni elettroniche presso fornitori o dispositivi. È in quest’ambito che si colloca la previsione, contenuta nella proposta Zanettin, che subordina l’utilizzabilità delle chat memorizzate in un telefono cellulare a un’autorizzazione preventiva del giudice. Il lettore ricorderà che sulle pagine de Il Dubbio chi scrive aveva espresso “in tempi non sospetti” talune perplessità. La verità è che uno smartphone non è paragonabile a un qualsiasi oggetto.

Il cuore del problema risiede proprio nella natura dell’apparecchio. Le chat digitali non sono meri tabulati che offrono dati esteriori e quantitativi (numeri, orari, durata delle chiamate); contengono conversazioni vive, espressioni linguistiche immediate, immagini, talvolta confessioni personali e pensieri intimi. Esse costituiscono un vero e proprio archivio della vita privata, un diario contemporaneo che accompagna l’individuo nelle sue relazioni quotidiane. L’accesso a tali contenuti equivale, in senso letterale, a penetrare nell’intimità più profonda della persona. Del resto, come ha affermato il Chief Justice John Roberts nella celebre sentenza Riley v. California della Corte Suprema degli Stati Uniti, non va dimenticato che «modern cell phones are not just another technological convenience. With all they contain and all they may reveal, they hold for many the privacies of life». Una riflessione, questa, che ci ricorda come i dispositivi digitali non siano più semplici strumenti di comunicazione, ma proprie estensioni dell’identità personale, custodi della dimensione più intima dell’individuo, e pertanto meritevoli di una protezione rafforzata da parte dell’ordinamento (Cfr. Riley v. California, 573 U. S. 373).

La magistratura requirente ha espresso forti perplessità, sostenendo che l’obbligo di rivolgersi al giudice per l’autorizzazione preventiva possa determinare un allungamento dei tempi delle indagini, con conseguente perdita di tempestività ed efficacia. L’argomento è comprensibile, soprattutto in procedimenti caratterizzati dall’urgenza e dalla necessità di reazioni investigative rapide. Ma non può essere decisivo. La velocità non è un valore assoluto, né può giustificare l’abbattimento di presidi posti a tutela dei diritti fondamentali.

È qui che il Legislatore deve intervenire con proposte concrete. Oltre a prevedere giudici reperibili “h24” attraverso turnazioni organizzate e piattaforme telematiche per la ricezione immediata delle richieste, si potrebbero introdurre termini perentori di decisione (24 o 48 ore), così da evitare stalli. Nei casi più urgenti, al pubblico ministero potrebbe essere riconosciuto il potere di procedere con un provvedimento provvisorio, subordinato a una convalida obbligatoria e immediata da parte del giudice. Sono soluzioni già sperimentate in altri settori processuali e che permettono di garantire, al tempo stesso, rapidità investigativa e tutela effettiva dei diritti (si veda, ad esempio, J. Della Torre, in Spunti di riflessione sulla proposta di legge in materia di sequestro di dispositivi e di dati, 19 giugno 2025). L’articolo 15 della Costituzione sancisce l’inviolabilità della libertà e della segretezza delle comunicazioni, ammettendo limitazioni soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria.

L’articolo 8 della Cedu ribadisce che ogni ingerenza nella vita privata deve essere giustificata da esigenze di interesse generale, ma soprattutto proporzionata e sorretta da garanzie adeguate. È proprio in quest’ottica che va letto l’articolo 254- ter c. p. p., che già oggi pretende un decreto motivato e un controllo giurisdizionale sull’acquisizione di dati informatici.

La proposta di legge Zanettin non fa che rafforzare questa impostazione, estendendo il filtro preventivo a un ambito – quello delle chat – che presenta un grado di invasività superiore. cIn termini tecnico- giuridici, l’autorizzazione preventiva del giudice non può essere considerata un aggravio burocratico, bensì il necessario bilanciamento tra l’interesse punitivo e la salvaguardia della sfera privata.

Il controllo giurisdizionale svolge una funzione di garanzia, assicurando che l’accesso sia giustificato da esigenze investigative concrete e che non si traduca in un’inammissibile attività esplorativa. Le obiezioni sul rischio di paralisi delle indagini possono, dunque, essere superate non con un arretramento delle garanzie, ma con una migliore tecnica legislativa. Sarebbe auspicabile, in coerenza con i principi di semplicità, chiarezza e precisione enunciati nelle Regole e raccomandazioni per la formulazione dei testi legislativi, procedere a una scomposizione dell’articolo 254- ter c. p. p. in più disposizioni coordinate, ciascuna dedicata a uno specifico profilo (sequestro dei dispositivi, acquisizione dei dati comunicativi, acquisizione dei dati non comunicativi). Inoltre, sarebbe opportuno introdurre una selezione qualitativa e quantitativa delle categorie di reato per le quali l’accesso è consentito, sul modello già previsto per le intercettazioni dall’articolo 266 c. p. p.. In questo modo si darebbe attuazione anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue che con la sentenza 4 ottobre 2024, causa C- 548/ 21, richiede basi normative chiare e precise a presidio del principio di proporzionalità.

La prospettiva sistematica è chiara. L’acquisizione delle chat tramite articolo 254- ter c. p. p. non è un’attività neutra, ma un mezzo di ricerca della prova che incide sul cuore della vita privata. La pretesa investigativa deve dunque misurarsi con il carattere “privatissimo” di tali dati. Senza un vaglio preventivo, l’indagine rischia di trasformarsi in una forma di sorveglianza generalizzata, incompatibile con i principi dello Stato di diritto. Il punto è allora quello dell’equilibrio: l’efficienza non può schiacciare la riservatezza, ma la riservatezza non può tradursi in impunità.

La proposta Zanettin – pur perfettibile – ha il merito di ricordarci che non si tratta di scegliere tra investigazione e diritti, ma di garantire che la prima non divori i secondi. È compito del Legislatore tracciare confini chiari, fissare regole certe e rafforzare il ruolo del giudice come dominus di questo bilanciamento. La cosiddetta “legge smartphone” non spunta le armi delle procure: ricorda soltanto che quelle armi devono essere usate nel rispetto di un confine invalicabile, quello della dignità e della vita privata delle persone.

È questa la vera sfida; investigare senza trasformare l’indagine in un varco illimitato dentro l’esistenza dei cittadini. In definitiva, il processo penale resta fedele alla sua funzione solo se sa coniugare l’efficacia dell’accertamento con il rispetto della dignità della persona. L’indagato, anche se sottoposto a gravi sospetti, resta titolare di diritti inviolabili. Consentire l’accesso illimitato alle sue conversazioni private significherebbe trasformare lo strumento investigativo in un occhio onnipresente, pronto a scrutare ogni piega dell’esistenza. È questa la deriva che il filtro giurisdizionale vuole scongiurare. L’equilibrio è fragile, ma è proprio su questo crinale che si misura la civiltà giuridica di un ordinamento.