PHOTO
Ci sono morti che non possono avere spiegazione perché causate da gesti insensati, oltre che criminali. La fine di Raffaele Marianella, secondo autista del bus che domenica sera avrebbe riportato a Pistoia una delle migliori tifoserie del basket italiano, la “Baraonda biancorossa”, ricorda precedenti fra i più assurdi nella cronaca nera degli ultimi decenni.
Come il sasso lanciato da un cavalcavia sull’autostrada del Brennero che nel 1996 spezzò la vita di Maria Letizia Berdini. Erano ragazzi «annoiati», che giocavano a uccidere, si disse. Non sappiamo se qualche disturbo psichico abbia contribuito al gesto assassino di domenica sera, alla sassaiola partita forse da sparuti frequentatori del Palasport di Rieti dopo Rieti-Pistoia, gara della Lega2 di basket.
Però, nelle pieghe di un fenomeno di cui si è parlato per decenni e del quale ora si cominciava a parlare meno, il tifo violento, qualcosa sulla pallacanestro va detta. Soprattutto perché la prima reazione dello stesso sistema mediatico, già questa mattina, a poche ore dall’agguato di Contigliano, è caduta appunto sul versante dell’incredulità: com’è possibile che la violenza arrivi anche nel basket, ambiente che ne sembra intrinsecamente immune?
Com’è possibile è domanda a maggior ragione legittima se si pensa che invece lì dove gli scontri da tifo sono nati, attorno e dentro gli stadi del pallone, molto è cambiato. Chi scrive sabato scorso ha assistito a Torino-Napoli di serie A, e soprattutto ha ammirato la scena precedente alla partita: migliaia, forse diecimila appassionati di fede azzurra che prima di varcare i tornelli dell’Olimpico “Grande Torino” passeggiavano tranquillamente negli spiazzali antistanti, mescolati ai supporters granata senza che accadesse nulla. Poco più di ventiquattr’ore dopo, Marianella è stato ucciso.
Un tentativo di capire può fare appello alla categoria dei surrogati, ma con due premesse: davvero nella pallacanestro gli scontri fra ultras non si erano praticamente mai visti, e anzi il protocollo adottato proprio da poche settimane, che introduce nei palasport regole sulle trasferte simili alle limitazioni “calcistiche”, era sembrato un’esagerazione. Ma comunque: tra i documenti più preziosi che in mezzo secolo siano stati prodotti sul tifo organizzato, c’è il documentario di Alberto Negrin trasmesso dalla Rai nel gennaio 1980 sul Commando ultrà della curva Sud giallorossa.
Li guardi, i protagonisti di quelle immagini (su youtube le trovi in un attimo) e ti accorgi che la gran parte dei capi ultras romanisti non erano neppure ventenni, qualcuno non aveva raggiunto la maggiore età. Siamo al crepuscolo degli anni di piombo, e il dato visivo conferma che gli ultras nacquero come surrogato pseudo-ludico della militanza politica: nel surrogato delle “brigate da stadio”, rifluirono i più giovani, chi non poteva certo aspirare alla leadership sul fronte “vero”, quello del Movimento del ’77.
Adesso nel basket, in alcuni contesti, potrebbe verificarsi un deflusso analogo: dalle retrovie della militanza degli stadi di calcio ai palazzetti. Ma se davvero un fenomeno del genere esiste – e il caso di Rieti non testimoniasse, come pure è probabile, un isolato impazzimento –, parliamo appunto di elementi che nelle curve del pallone sarebbero marginali, e che sulle ringhiere dei parquet cercano un’affermazione altrimenti inarrivabile.
La violenza nello sport si intreccia ancora oggi, forse, con un paradossale aspetto ludico, con un infantilismo emulativo che a volte diventa criminale. Ma è in ogni caso tremendo parlarne. Perché la verità accertata è solo una: un uomo di 65 anni ha perso la vita, per un gesto che chiunque sappia davvero la vita cos’è, troverà comunque, e per sempre, mostruoso.