Sembrava tutto normale, quel giorno al congresso di Area, la corrente di sinistra della magistratura. Perché ci sono giornate in cui pare più facile trovare l’accordo tra Israele e Hamas sulla pace in Medioriente, piuttosto che tra il governo italiano di centrodestra e la magistratura militante. Se poi succede che per consueto gesto di ritualità, al congresso sia stato invitato il ministro Guardasigilli, è ovvio che l’accoglienza non possa superare lo sfiorarsi cortese delle punta delle dita. E l’atteggiamento dei presenti con lo sguardo fisso al maxischermo del collegamento ha l’oscillazione del pendolo, tra l’indifferenza e lo scetticismo. Tutto pareva nella norma.

Gli uni contro gli altri armati. Nessuno spiraglio di modifica aveva concesso, durante gli ultimi mesi di discussione parlamentare, il disegno di legge del governo sulla separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm e la creazione della Corte di giustizia.

Anche se, per i due anni precedenti, tutte le parti in causa erano state consultate dalle commissioni giustizia di Camera e Senato. Ma nel frattempo un muro ancora più invalicabile era stato eretto dall’Associazione Nazionale Magistrati, il sindacato delle toghe, già pronto con il suo “Comitato per il no”, in previsione del referendum confermativo della prossima primavera. Non c’è un Trump a bussare alla porta delle due parti contendenti, non ci sono prigionieri da scambiare. Solo indifferenza e scetticismo, anche quando il ministro stuzzica le “toghe rosse” della corrente nata dalla fusione degli ex estremisti (un tempo anche garantisti) di Magistratura Democratica con i più moderati del Movimento per la giustizia, gli eredi dei “Verdi”, così chiamati per il colore della carta su cui avevano pubblicato il loro primo comunicato. Dice Nordio per l’ennesima volta di sentirsi in mezzo a loro, sia pur virtualmente, come De Gasperi alla Conferenza di Parigi dopo la guerra, quando esordì con “qui dentro tutto sembrerebbe ostile tranne la vostra personale cortesia”. Ma poi le cose non andranno proprio così, in questo congresso, a parte la fredda accoglienza riservata al rappresentante del governo. Scontata, nonostante il rituale della rassicurazione sul mantenimento dell’autonomia e indipendenza della magistratura, pubblici ministeri compresi, rispetto al potere esecutivo.

Ma sarà invece proprio l’appello finale del ministro, che potrebbe parere solo stanco rituale, ad aprire uno scenario inedito. Lui invita il congresso delle toghe a “non cadere nell’abbraccio mortale con la politica”, immaginando risposte di diniego sdegnato. Accadrà invece l’opposto. Non tanto e non solo perché arriveranno al congresso di Area le festanti solidarietà dei leader della sinistra, da Elly Schlein a Giuseppe Conte e Angelo Bonelli. E neanche perché qualcuno ricorderà che proprio la premier Giorgia Meloni era andata addirittura all’assemblea generale delle nazioni Unite a lamentarsi dei “giudici politicizzati” italiani. Fino a qui era appunto il consueto gioco delle parti.

Ma sarà l’intervento di un magistrato molto conosciuto e molto mediatico nella sua veste di ex presidente dell’Anm, come Giuseppe Santalucia a dare il segnale della svolta. Non c’è bisogno di squilli di tromba.

L’abbraccio con la politicità della scelta è inevitabile. Ci dite che dobbiamo sottrarci a questo abbraccio? “Ma come si fa? Che cosa c’è di più politico di una riforma costituzionale che cambia l’assetto dell’ordine giudiziario?”. Il dado è tratto. Ora si può dire, che lo scontro è politico, e lo conferma l’applauso incondizionato ed entusiastico che punteggia l’intervento dell’ex capo delle toghe. Ormai il ring della riforma sulla separazione delle carriere è politico e nessun pudore potrà sbiadirne la connotazione.

La riforma intanto è in cammino e continua il proprio percorso al Senato, dopo le tre letture precedenti. Alberto Balboni, presidente della commissione affari costituzionali del Senato, conta di terminare i lavori questa settimana.

La deliberazione finale non potrà comunque avvenire prima del 23 ottobre, quando scadranno i tre mesi previsti dal primo voto del Senato del 22 luglio. A partire da quel giorno parleranno le lame incrociate della battaglia. Che nessuno porrà più definire se non come “politica”.