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La procuratrice Ann Fransen
«Risposte insoddisfacenti», elementi «senza né capo né coda», un elenco di fatti «senza alcuna plausibilità». Con queste parole, nelle stanze della Commissione giuridica del Parlamento europeo – la Juri – si commentano in queste ore le richieste arrivate dalla procura belga sui casi Qatargate e Huawei. Segnali di un rigurgito garantista tanto tardivo quanto necessario, come avevamo anticipato sul Dubbio di ieri, e che ora trova conferma diretta da Bruxelles. Fonti qualificate spiegano che la procuratrice Ann Fransen non ha saputo fornire chiarimenti convincenti alle domande dei commissari, costringendo l’organismo parlamentare a rallentare il voto sulle revoche di immunità.
È un cambio di passo profondo rispetto alla linea seguita ai tempi del Qatargate, quando la Commissione aveva negato all’allora vicepresidente del Parlamento, Eva Kaili, la possibilità di discutere l’eventuale violazione della propria immunità, subito revocata su richiesta della procura. Una scelta che aveva sollevato più di un sospetto, anche alla luce delle rivelazioni sul fatto che Kaili fosse stata spiata e monitorata dai servizi segreti belgi, nonostante il fascicolo a suo carico non contenesse indizi concreti di coinvolgimento in un’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. E che non ci fossero indizi erano gli stessi 007 a scriverlo nero su bianco. Tali sospetti appaiono oggi ancora più fondati, dopo gli ultimi colpi di scena: tra questi, l’audio in cui l’ispettore capo dell’inchiesta mette in dubbio la credibilità del grande accusatore, Pier Antonio Panzeri, l’ex eurodeputato che aveva chiamato in causa Kaili e altri, e che ora risulta indagato a Milano per calunnia.
All’epoca, la Commissione Juri aveva spiegato la decisione di respingere la richiesta di tutela dell’immunità di Kaili con un messaggio pubblicato su X dall’allora presidente, Adrián Vázquez Lázara: «Dopo un’analisi approfondita del caso – scriveva – la Commissione ha stabilito che la richiesta è inammissibile. Rimaniamo impegnati a garantire i diritti dei deputati e a rafforzare lo stato di diritto attraverso la piena cooperazione con i Paesi membri». Un post subito rilanciato sul proprio profilo dal procuratore federale del Belgio, Frédéric Van Leeuw, a capo dell’inchiesta sul Qatargate, che poche settimane prima aveva imposto il silenzio agli indagati con un atto poi dichiarato illegittimo dai giudici.
Oggi quell’idillio istituzionale è finito. L’atteggiamento della Commissione Juri verso la procura belga è diventato diametralmente opposto. Due, in particolare, sono i casi ancora aperti e che segnano questo mutamento: quelli delle eurodeputate italiane Elisabetta Gualmini e Alessandra Moretti. L’iter per la revoca delle loro immunità procede a rilento, proprio per le numerose perplessità emerse durante le audizioni. I membri della Commissione hanno chiesto più volte chiarimenti alla procura, ricevendo però risposte generiche e documentazione ritenuta insufficiente. Le accuse, spiegano fonti parlamentari, si basano su elementi deboli e contraddittori: nel fascicolo compaiono riferimenti a presunti regali – come un orologio – che la stessa procura definisce “possibili”, ammettendo di non avere prove.
Nel caso di Moretti, ad esempio, la verifica dei documenti di viaggio ha smentito l’affermazione di Panzeri secondo cui l’eurodeputata sarebbe stata ospite di un ambasciatore in Marocco: dai passaporti risulta che non c’è mai stata. È solo uno degli esempi di superficialità che, secondo chi ha analizzato le carte, minano la credibilità dell’intera inchiesta. «Chi ha studiato davvero i documenti – raccontano fonti della Commissione – non ha trovato nulla di concreto». Anche perché lo strafalcione del caso Huawei, con lo “scambio” di persona che ha colpito Giusy Princi - ritenuta presente ad una riunione mentre si trovava a chilometri di distanza da Bruxelles e addirittura in epoca antecedente al mandato parlamentare - ha spinto la presidente Roberta Metsola a parlare di «incuria».
L’impressione diffusa è che i fascicoli belgi siano ormai percepiti come fragili, costruiti su dichiarazioni non riscontrate e su un impianto accusatorio che non regge alla prova dei fatti. La stessa Fransen, di fronte alle richieste di chiarimento, avrebbe fornito risposte confuse e incomplete, tanto da alimentare irritazione tra i parlamentari, trincerandosi dietro il segreto delle indagini e la presunzione d’innocenza. È su questa base che il voto sulla revoca delle immunità potrebbe trasformarsi in un vero e proprio banco di prova politico.
Il verdetto, infatti, non dipenderà solo dagli atti d’indagine, ma anche dai delicati equilibri interni ai gruppi parlamentari. Nel Partito popolare europeo, in particolare, pesa ancora la spaccatura esplosa con il caso Ilaria Salis, quando i popolari si divisero salvando l’eurodeputata italiana di Avs e ribaltando il parere del relatore del gruppo stesso. «È possibile – osserva una fonte – che anche questa volta il voto risenta di logiche politiche più che giuridiche». Un esito del genere rappresenterebbe l’ennesima occasione mancata per il Parlamento europeo, che avrebbe potuto riaffermare con forza la propria autonomia e il principio di garanzia. Ma, comunque vada, un dato appare ormai incontestabile: a Bruxelles cresce lo «sconcerto» per l’operato della procura belga, accusata di approssimazione e di scarsa trasparenza. Meglio tardi che mai, si dirà. Ma il cambio di rotta della Commissione Juri segna anche l’inizio di un necessario riesame su come la giustizia europea, in nome della lotta alla corruzione, rischi di compromettere i propri stessi valori di diritto e di equilibrio istituzionale.


