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European Parliament President Roberta Metsola speaks during a media conference at an EU Summit in Brussels, Thursday, Oct. 23, 2025. (AP Photo/Harry Nakos) Associated Press/LaPresse
Tre anni dopo il terremoto del Qatargate, che sembrava aver messo in ginocchio la credibilità del Parlamento europeo, il vento è cambiato. Non perché la sete di giustizia della procura belga si sia placata, ma perché – lentamente – è emersa una nuova consapevolezza: la necessità di difendere lo Stato di diritto, anche quando il clamore mediatico è tale da minare la credibilità delle istituzioni. Soprattutto se le richieste provenienti dall’autorità giudiziarie vengono sottoposte al Parlamento a scatola chiusa.
A confermare questa nuova tendenza è la testata Euractiv, che ha rivelato uno scontro sempre più teso tra la magistratura belga e la commissione giuridica (Juri) del Parlamento europeo, incaricata di valutare le richieste di revoca dell’immunità per i deputati coinvolti nelle indagini. La sensazione diffusa a Bruxelles è che la procura belga abbia oltrepassato il limite della prudenza. Tanto da portare allo scontro tra i membri della Commissione e un alto magistrato belga.
La miccia è rappresentata dal presunto scandalo Huawei, sulle ipotizzate operazioni di influenza da parte del gigante cinese delle telecomunicazioni. La presidente Roberta Metsola, questa volta, ha cambiato atteggiamento. E ha messo in discussione la credibilità del sistema giudiziario belga. Non senza ragioni: i pm hanno infatti chiesto la revoca dell’immunità dell’eurodeputata Giusi Princi, nonostante la stessa non potesse essere all’incriminato pranzo organizzato da Huawei il 24 giugno 2024: Princi si trovava infatti a chilometri di distanza da Bruxelles, in Calabria, alla recita scolastica della figlia.
Un elemento che non richiedeva investigazioni approfondite e che pure la procura non aveva verificato. Come non aveva verificato un altro dato: la proclamazione di Princi è avvenuta soltanto il 3 luglio, dunque pochi giorni dopo quel pranzo. Non c’era, dunque, nessuna immunità da revocare. Insomma, un pasticciaccio, che però ha chiarito il metodo di indagine della procura belga a chi non se ne fosse accorto prima. Metsola ha parlato di «incuria», decidendo, finalmente, di proteggere il Parlamento dagli attacchi scomposti della procura. E il clima teso, documenta Euractiv, emerge dal tenore dell’audizione del procuratore federale belga Ann Fransen. Una tensione che sarebbe poi stata riversata in una lettera inviata dal presidente della Commissione Ilhan Kyuchyuk a Fransen.
In quella lettera, l’eurodeputato ha evidenziato le crepe del caso Huawei, chiedendo chiarimenti sui presunti reati, sulla loro base giuridica e su eventuali prove concrete che collegassero i deputati alle accuse. Fransen, nella sua risposta, ha però ribadito che i deputati dovevano solo verificare se la richiesta di immunità fosse motivata da ragioni politiche, non esigere l’accesso alle prove, cosa che avrebbe violato la segretezza delle indagini e la presunzione di innocenza. La richiesta di revoca dell’immunità, ha aggiunto Fransen, deve essere presentata non appena emergono indicazioni credibili di illeciti, anche in assenza di prove complete, in quanto gli investigatori non possono procedere senza l’autorizzazione del Parlamento.
È un braccio di ferro istituzionale che, al di là dei tecnicismi, pone una domanda cruciale: fino a che punto i pm possono spingersi nel cuore delle istituzioni comunitarie senza intaccarne l’autonomia politica? Il caso Qatargate ha dimostrato che l’autorità giudiziaria belga ha avuto, almeno fino a poco tempo fa, mani libere: non solo ha partecipato alle riunioni di commissione in borghese, prendendo appunti sulle opinioni dei singoli parlamentari (tramutandole poi in ipotesi di reato), ma ha ottenuto la revoca dell’immunità senza presentare alcuna documentazione circa le ragioni che rendevano necessario, ad esempio, l’arresto di Eva Kaili, all’epoca vicepresidente del Parlamento europeo, pedinata dai Servizi segreti senza alcun elemento a suo carico.
La procura belga ha di certo applicato due pesi e due misure: immunità da revocare per Kaili e gli altri, ma non per Maria Arena, con la motivazione surreale legata alla sua nazionalità. Buon per Arena, un po’ meno per la democrazia europea. A distanza di anni, la procura - dove le indagini sono passate di mano in mano, dopo la rinuncia di Michel Claise a causa del conflitto di interessi proprio con Arena - ha proposto la revoca dell’immunità per altre due parlamentari italiane, Elisabetta Gualmini e Alessandra Moretti, nonostante gli scarsissimi elementi di sospetto (e sospetto è già un parolone).
È in quel momento che la Commissione è stata colta dal dubbio di dover porre un freno alla “esuberanza” della procura, che proponeva a sostegno della propria richiesta elementi vaghi, evanescenti e persino surreali. Ma è l’intero dossier belga, a distanza di anni, a sembrare una scatola vuota. Il rischio, denunciato da diversi membri della Commissione, è che la procura belga abbia progressivamente spostato l’asse dell’indagine dal piano penale a quello politico, interpretando come indizi di corruzione atti pienamente riconducibili all’attività parlamentare: la firma di un emendamento, un viaggio ufficiale, una votazione, persino la partecipazione a un dibattito di gruppo. Una linea sottile, quella tra trasparenza e intimidazione, che a Bruxelles molti temono possa essere ormai superata, mettendo a rischio non solo la posizione del singolo deputato, ma la libertà e l’indipendenza dell’intero edificio democratico europeo.
Ma è solo l’inizio dello scontro: Metsola ha infatti annunciato una revisione delle procedure di cooperazione con la polizia belga, per proteggere la reputazione degli eurodeputati, a causa di fughe di notizie che hanno fatto passare semplici indagati come colpevoli. Insomma, forse il virus del garantismo ha finalmente contagiato il Parlamento europeo. Per quale motivo è tutto da vedere.