È un fascicolo di cui prima o poi si sono liberati tutti. Un fascicolo che scotta. Troppo complicato, troppo oneroso, si pensava. Ma alla luce dell’inchiesta sulla polizia giudiziaria che ha condotto il caso, la verità sembra essere diversa. Perché il fascicolo, per dirla con uno dei magistrati di questa inchiesta, rischia di esplodere in faccia a chiunque ci metta mano.

Così, uno dopo l’altro, i giudici coinvolti nell’indagine del secolo sul presunto scandalo di corruzione all’interno dell’Europarlamento - ferma al palo sin dal giorno degli arresti - hanno lasciato la poltrona, senza riuscire a cavare un ragno dal buco.

In principio fu Michel Claise, il Di Pietro belga che voleva aprire il Parlamento europeo come una scatoletta di tonno. Fu lui il volto del blitz del 9 dicembre 2022, quando la polizia, sulla base delle carte fornite dai Servizi segreti - e praticamente solo quelle - si fiondò a casa di ex eurodeputati e parlamentari europei, tra i quali la vicepresidente Eva Kaili, subito scaricata in grande stile dai suoi colleghi che votarono per la revoca della sua immunità.

Secondo Claise, la democrazia europea sarebbe stata «fottuta» da una corruzione finora tutta da dimostrare, mentre il Belgio sarebbe un «narco- Stato». L’incorruttibile toga fu però costretta a lasciare a seguito del legittimo sospetto sollevato dall’avvocato dell’eurodeputato belga Marc Tarabella, Maxime Toller, che ha svelato i rapporti di affari tra il figlio del giudice e quello di Maria Arena, eurodeputata il cui nome era spuntato più volte durante le indagini, ma tenuto fuori dal fascicolo fino alle dimissioni di Claise. Riposta in un cassetto la toga, Claise si è poi lanciato in politica, aspirando alla poltrona di ministro della Giustizia in Belgio, ma incassando una sonora sconfitta, con un partito - DéFi - che ha espresso un solo parlamentare.

A prendere il suo posto fu poi il giudice istruttore Aurélie Dejaiffe. Ma anche la sua esperienza durò poco: a dicembre 2024, infatti, la magistrata ha ottenuto il trasferimento alla Corte d’appello di Bruxelles, senza far fare alcun passo in avanti all’inchiesta. Della quale si è dunque liberata. Prima di lei, a dire addio era stato il procuratore federale Raphaël Malagnini, che nel 2023 ha chiesto e ottenuto il trasferimento, passando all’auditorato del lavoro di Liegi. Ed è proprio lui, nel fascicolo del giudice Anciaux, ad essere indicato da diversi indagati e testimoni come il centro dell’accordo illegale con la stampa. Colui secondo cui, appunto, quello sul Qatargate era un dossier che «stava per esplodere in faccia». Ma non ci sono solo i magistrati.

Anche l’ufficio anticorruzione, in questa vicenda, ha dato il suo meglio. A partire dal capo dell’indagine Bruno Arnold, indagato principale per violazione del segreto istruttorio e da Hugues Tasiaux, capo dell’Ocrc, ora incriminato per violazione del segreto istruttorio, del segreto professionale e della legge sulla protezione dei dati. Stando al fascicolo, il funzionario faceva anche riparare in nero la propria auto e quelle dei familiari in cambio di informazioni riservate tratte dal registro nazionale.

Tra le ricerche abusive anche quella sull’investigatore Alain Weiver, arrestato nel gennaio 2024 dalla polizia locale al Bar des Amis dopo aver molestato clienti e aggredito il barista in stato di ebbrezza. Al momento dell’arresto, però, l’investigatore del Qatargate ha opposto resistenza. Da qui il suo trasferimento in una apposita cella e poi, a seguito di dolori addominali, il ricovero: gli esami hanno rivelato un livello anormalmente elevato di anfetamine, sostanze che Weiver ha giurato di non aver mai consumato. Da qui la convinzione, dato il suo coinvolgimento in indagini delicate, di essere stato avvelenato, e la denuncia per tentato omicidio. Sei mesi dopo, però, tali opzioni si sono rivelate pura fantasia: si è trattata di una sonora sbronza, disse il giudice archiviando le indagini, con buona pace di ogni complottismo.

Il punto più alto della vicenda, però, è forse quello che riguarda il principale investigatore al lavoro sul caso, Ceferino Alvarez Rodriguez: l’ispettore - che Malagnini voleva a capo dell’inchiesta - è stato registrato mentre a casa di Francesco Giorgi, ex assistente di Antonio Panzeri, il super pentito dell’inchiesta - dichiarava di non credere ad una sola parola pronunciata dall’ex eurodeputato. «Sappiamo benissimo che ci sta prendendo in giro - aveva detto -. Ma esploderà tutto. E lui si assumerà le sue responsabilità». Alvarez Rodriguez ha poi ricevuto una sanzione disciplinare grave (una trattenuta del 10% sullo stipendio per due mesi) per «aver minato la dignità della sua funzione e aver mancato ai suoi obblighi professionali».

Nonostante ciò, l’ispettore ha tentato di zittire il quotidiano Sudinfo, chiedendo a un giudice di far sparire l’audio pubblicato. Una richiesta sonoramente bocciata e bollata come incostituzionale dalla giudice Manuela Cadelli.