L’indagine per corruzione (e forse altro) contro il PM che condusse le indagini sull’omicidio di Chiara Poggi è una notizia talmente sconvolgente, talmente orribile che quasi ci si augura non sia vera seppure, come mi è capitato di scrivere altre volte, mai ho creduto alla colpevolezza di Alberto Stasi.

Esprimere un giudizio sulla fondatezza o meno di quella che ad oggi è solo una mera ipotesi di accusa, non sarebbe giusto. Anche nel caso del PM oggi indagato e di Andrea Sempio vale la presunzione di innocenza.

Una considerazione generale è però doverosa: gli investigatori ipotizzano una condotta addirittura corruttiva che, se dovesse risultare provata, costituirebbe la più grave condotta di corruzione mai perpetrata nel nostro Paese.

È vero che il “prezzo” della corruzione sarebbe stato modesto, 40.000 euro e non certo i milioni di euro di cui si sente dire in occasioni di grandi appalti o altro del genere, ma è anche vero che l’oggetto del mercimonio, cioè gli effetti dell’atto contrario ai doveri del pubblico ufficiale, sarebbe stato di un valore enorme, incommensurabile. Da un lato ci si sarebbe fatto gioco della morte crudele di una giovane ragazza, dall’altro si sarebbe garantita l’impunità ad un feroce assassino, in tal modo lasciato libero anche di commettere altri delitti.

Dall’altro ancora, ed è forse la cosa enormemente più grave ed inaccettabile, si sarebbe fatto in modo di condannare un innocente (appunto Alberto Stasi), perseguendolo, non cercando ma anzi nascondendo la verità, non curandosi del fatto che di questo altro giovane con la condanna a decenni di galera (o addirittura all’ergastolo che ha fortemente rischiato) ne sarebbe a sua volta cagionata la morte, seppure dal punto di vista civile e morale.

Insomma un comportamento che, al prezzo di 40.000 misere euro, avrebbe determinato la morte violenta di due persone, una uccisa fisicamente l’altro civilmente, oltre che l’impunità di un feroce assassino. Non credo si sia mai visto nel nostro Paese un fatto corruttivo così grave. Si impongono alcune altre riflessioni.

La prima: lo scadimento nel nostro sistema processuale della cultura della prova che va di parallelo con l’asservimento del Giudice e del suo Giudizio al Pubblico accusatore ed al suo teorema accusatorio. È un asservimento culturale e spesso anche psicologico. Quello che più mi preoccupa è il primo. Oggi si parla tanto della cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare il PM ed i Giudici e del rischio che la proposta di separazione delle carriere farebbe venire meno tale raccordo.

Rilevo subito che questa impostazione dà per scontata una cosa che non lo è affatto e, cioè, che i PM siano effettivamente portatori, in modo adeguato, di una cultura della “giurisdizione” e, aggiungo, se è giusto che lo siano. Ritengo, però, che a monte di tale ragionamento vi sia un errore ancora più grave: quale cultura deve, primariamente, avere il Giudice in ambito penale? Che significa cultura della giurisdizione? Questa costituisce indubbiamente un dato culturale di enorme importanza per ogni giurista e soggetto “tecnico” del processo, sia esso Giudice, PM o avvocato. Ma, a ben guardare, essa ha un contenuto essenzialmente formale, tanto che dovrebbe accomunare figure e funzioni per molti aspetti opposte. Mi astengo dallo sbilanciarmi su quale cultura il PM debba essere espressione e portatore, ma mi sento di affermare che è molto, molto riduttivo che il Giudice debba essere espressione di una aspecifica, formale cultura della “giurisdizione”.

Il Giudice, infatti, deve innanzitutto incarnare la cultura delle garanzie, e la prima di queste garanzie è la presunzione di innocenza a cui si connette l’altro principio, comunque di rilievo costituzionale anche se non esplicitamente contenuto nella Carta, dell’affermazione di responsabilità solo in mancanza di un qualsiasi ragionevole dubbio. Non credo sia possibile affermare che in Italia il Giudice sia espressione della cultura delle garanzie, e deve anche essere chiaro che il PM non può, e per certi aspetti non deve, esserlo.

Ecco perché è veramente fallace sostenere che Giudice e PM devono essere espressioni della medesima “cultura” rispetto alla loro funzione. L’offuscamento della cultura delle garanzie nell’ambito della funzione del Giudizio va di pari passo con lo scadimento della cultura della prova.

Vogliamo gridare con forza che il principio dello “oltre ogni ragionevole dubbio” si traduce in troppe condanne in una mera formula di stile del tutto scollegata ad un metodo valutativo ed argomentativo che abbia la forza di rendere l’ipotesi accusatoria come l’unica possibile oltre che processualmente certa?

Invito a soffermarsi sulla eventualità della condanna in appello che riformi la sentenza assolutoria in primo grado o, addirittura e come peraltro accaduto nel caso di Alberto Stasi, di ben due sentenze di assoluzione in primo e secondo grado e quindi dell’intervento di un annullamento da parte della Suprema Corte e poi di una condanna - dopo due assoluzioni!- in sede di rinvio. La questione ripropone un tema da decenni molto dibattuto tanto che per pochi anni in Italia venne preclusa (legge c. d. “Pecorella”) la possibilità di proporre appello avverso una sentenza di assoluzione.

Ripristinata la possibilità di appello del PM, sono intervenute alcune decisioni della Corte EDU che hanno, tra l’altro, reclamato la necessità che per riformare una decisione assolutoria si debba rinnovare l’istruttoria dibattimentale e disporre di elementi tali da consentire una motivazione dotata di particolare forza argomentativa, di valenza assolutamente tranciante e risolutiva rispetto ad ogni altra diversa ipotesi.

In tali ambiti nel 2017 è stata introdotta una norma ( il comma 3 bis dell’art. 603 cpp, in parte modificato nel 2022) che prevede l’obbligo di rinnovare le prove orali assunte in dibattimento prima di procedere alla riforma di un’assoluzione.

Nei fatti, la portata di queste novità del Giudice di Strasburgo e del legislatore è stata fortemente ridimensionata perché generalmente si ritiene che si possa pervenire ad una condanna in luogo della precedente assoluzione anche se la nuova istruttoria dibattimentale non abbia apportato alcun elemento probatorio ulteriore in danno dell’imputato: nella sostanza si è ridotto l’obbligo imposto dal comma 3 bis dell’art. 603 ad una pura formalità.

Inoltre, si è consolidato l’orientamento per cui anche nel caso di riforma assolutoria di una condanna in primo grado il Giudice di appello debba offrire una motivazione particolarmente rafforzata. In pratica si è equiparato l’obbligo di motivazione delle possibili decisioni di riforma in grado di appello, sia che esse comportino una assoluzione dopo una condanna che una condanna dopo un’assoluzione.

Così facendo, però, si trascura che la sentenza di assoluzione è strettamente ricollegata al principio costituzionale della presunzione di innocenza e, quindi, è già in se stessa per molti aspetti giustificata proprio perché espressione di tale presunzione, mentre una sentenza di condanna deve vincere “oltre ogni dubbio” quel principio costituzionale e, quindi, deve sempre porsi su un piano argomentativo e probatorio molto più forte, giammai equiparabile alla decisione assolutoria.

Non vorrei indugiare negli aspetti tecnici ma, a questo punto, andare alla conclusione: le vicende come quella di Garlasco, e così di una condanna definitiva in danno di un giovane (Alberto Stasi) che oramai nessuno crede più colpevole, non nascono dal caso, non sono frutto del fortuito, ma trovano cause profonde ed allarmanti in aspetti generali del nostro sistema e, purtroppo, in quello che ho poc’anzi indicato come un marcato scadimento della cultura delle garanzie e della prova.