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Il destino della famiglia che vive nei boschi di Palmoli è diventato un caso nazionale che scuote e polarizza l’opinione pubblica, subito divisa in fazioni irriducibili e incapaci di parlarsi. Da un lato chi vede nello Stato un guardiano necessario della tutela dei minori, dall’altro chi denuncia l’intrusione di un potere tiranno che si arroga il diritto di decidere come vivere e come educare i propri figli. Una vicenda che fa vibrare corde profonde, provocando reazioni scomposte, emotive e che chiama in causa i principi delle società moderne, il rapporto tra Stato e individuo, tra libertà e uguaglianza, tra natura e cultura.
Chi è il “proprietario” legittimo dell’infanzia? I poteri pubblici, con il loro mandato di protezione, o la famiglia, con la sua libertà di educare secondo valori, culture, persino fantasie non conformi? La famiglia, come nucleo originario e pre-politico, oppure lo Stato, in quanto garante dell’ordine civile. Rousseau, nell’Emilio, aveva già posto il problema: la natura spontanea del bambino è un bene da preservare, ma è compito dell’educatore guidarlo verso la piena cittadinanza. Il suo sogno di un’educazione “naturale” non aboliva il vincolo con la comunità, al contrario.
Qual è il confine tra l’autonomia individuale e la responsabilità collettiva? Lo Stato moderno è nato proprio per proteggere chi non può proteggersi: minori, fragili, esclusi. Ma la stessa storia insegna che la protezione può degenerare in controllo dispotico, e che l’azione degli apparati può farsi opaca, sottrarsi alla discussione pubblica, produrre effetti che non coincidono con le intenzioni, seppellire il buon senso negli automatismi burocratici.
L’Illuminismo ha sacralizzato la ragione, trasformando la scienza sociale in misura del bene pubblico; l’Ottocento ha costruito la scuola come officina del cittadino; il Novecento ha visto gli Stati — democratici o totalitari — rivendicare il diritto di modellare l’infanzia per assicurare la sopravvivenza della comunità. L’idea che lo Stato possa “agire meglio” della famiglia ha radici storiche precise. E con la stessa forza, ma dalla parte opposta, il pensiero liberale ha sempre difeso la famiglia come limite invalicabile all’ingerenza del potere politico.
Ogni volta che uno Stato interviene sulla famiglia, riemergono fantasmi antichi: la paura della polis che ingloba l’individuo, il sospetto che l’autorità pretenda di “fabbricare” un certo tipo di cittadino. Ogni volta che una famiglia rivendica il proprio diritto a vivere in modo divergente, riaffiora l’angoscia opposta: che l’infanzia, se abbandonata a un microcosmo privato e sociopatico, possa essere privata delle possibilità che la collettività considera irrinunciabili.
Quando i due principi si scontrano, il dibattito implode e non potrebbe essere diversamente. È la struttura stessa del problema a non avere soluzione, il patto sociale si fonda proprio su questo compromesso, in generale funziona, ma non sempre si riesce a mantenere l’equilibrio.
La famiglia del bosco appare in tal senso come un caso borderline: abbastanza eccentrico da risultare inquietante, non abbastanza estremo da essere respinto senza esitazione da tutti. C’è poi l’infanzia, il luogo dove tutti abbiamo riposto un frammento della nostra identità più vulnerabile e primitiva. Quando lo Stato interviene su un bambino in modo così netto percepiamo sempre una quota di violenza, simbolica e concreta allo stesso tempo. Intervenire in quel grumo significa toccare la zona dove la natura incontra la cultura, dove la famiglia incontra la legge, dove ciò che è più privato diventa improvvisamente politico.
A tutto questo si somma una tendenza palese della nostra epoca: la crescente sfiducia nella scienza come guida morale e la diffidenza verso le istituzioni tecniche. Non è in discussione solo la fondatezza di un intervento, ma l’autorità e la buona fede di chi decide. La medicina, la psicologia, il diritto minorile, invece di apparire come bussole condivise, strumenti razionali, vengono lette come linguaggi del potere, mezzi di dominio. In un’epoca in cui ogni sapere è contestato, ogni decisione tecnica rischia di sembrare arbitraria, basti pensare al complottismo globale durante la pandemia di Covid.
Non sappiamo se la famiglia di Palmoli riotterrà la custodia legale dei figli oppure se i piccoli saranno affidati a qualcun altro, ma l’intera vicenda ci mostra quanto sia difficile a volte tenere insieme i diritti di tutti perché in questo caso non esiste una soluzione pulita, non traumatica. È forse per questo che, più si discute, più ci si divide.


