Le gemelle Alice ed Ellen Kessler hanno avuto, come trovo scritto, una vita meravigliosa nel mondo della danza e poi la loro storia diviene un “drammatico errore”, (Ansa) perché hanno deciso di restare unite nella “danza della morte”. Nulla, invece, di “drammatico”.

Le gemelle Kessler insieme e nel rispetto delle condizioni della Corte costituzionale tedesca hanno voluto fare l’ultimo percorso della vita, essere pienamente consapevoli di quel tratto terminale che non poteva avvenire casualmente, ma di cui dovevano essere pienamente proprietarie.

Spesso si dice che non è importante morire presto o tardi, ma morire bene. E morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. Credo che la vita delle Kessler sia stata bella e altrettanto bella e commovente la loro morte. Legittimo il desiderio che non fosse questa a prenderle in un momento ignoto, «in un mondo - come ebbe a dire Dj Fabo - senza colori», ma che fossero loro ad affrontarla insieme e in un momento stabilito.

È pressoché scontato chiedersi se quello che è lecito in Germania lo sia anche in Italia. Nel nostro Paese il “bene vita”, il “fine vita” sono argomenti da tempo centrali nella discussione del biodiritto. Argomentazioni controverse, ideologie contrapposte in merito alla regolazione di come morire, in un’era caratterizzata dall’avanzamento delle tecnologie biomediche che configurano inedite condizioni di esistenza.

La legge n. 219/ 2017 “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento” ha introdotto una regolazione sul rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari sulla base dell’autonomia del soggetto, sul dovere di astenersi da ostinazione irragionevole di cure sproporzionate, sulla liceità della sedazione profonda e delle disposizioni anticipate di trattamento. Con la sentenza n. 242/ 2019 la Corte Costituzionale è intervenuta sulla questione del suicidio assistito, dichiarando incostituzionale la norma 579 c. p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Una sentenza avvalorata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale è rappresentato dall’esplicito riconoscimento del diritto di ciascuno di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà. Rimane che non è data nessuna possibilità per chi soffre di malattie psichiatriche.

Tuttavia, la pronuncia della Cassazione ha determinato un passaggio dal “lasciar morire”, già recepito dalla L. n. 219/ 2017, “all’aiuto a morire medicalizzato”, ora non punibile, qualora sussistano le procedure e le condizioni del paziente indicate nella sentenza. Pertanto, viene dalla Corte mantenuto il reato di aiuto al suicidio, attribuendo valore alla vita e ci si allontana, comunque, da una diversa situazione: quella in cui il soggetto si avvalga per la sua morte del prodotto letale somministrato da un terzo (un medico, un familiare, un amico, ecc.). Per il nostro ordinamento questo è ancora un atto criminoso, definito come “omicidio del consenziente” ( art. 580 c. p.) e generalmente indicato come eutanasia.

Resta, comunque, che malgrado l’invito della Corte al legislatore di consolidare e precisare alcuni passaggi della sentenza entro un anno, ancora a distanza di sei anni manca una normativa e i progetti di legge, nel condividere a fatica i principi della Corte, tendono a porre ulteriori limiti all’aiuto al suicidio e alla modifica dell’art. 579 c. p. La proposta al Parlamento può anche suscitare una qualche perplessità in quanto, come è stato osservato, dovrebbe essere hic et nunc di spettanza della Corte decidere su delicate questioni di costituzionalità, evitando di correre il rischio di situazioni paradossali.

Non era affatto scontato, infatti, che il legislatore accogliesse l’invito della Corte di disciplinare normativamente l’aiuto al suicidio. Tanto più che non è la prima volta che il Parlamento ignora o lascia troppo a lungo senza risposta le indicazioni della Corte costituzionale. La necessità allora non può che essere che in sede parlamentare si faccia un passo avanti, non lasciando che “l’aiuto al suicidio” continui a restare nel vago di diverse letture giurisprudenziali o di normative regionali, in merito al contenuto, ai limiti, agli organi di controllo e all’ampiezza delle “condizioni scriminanti” contenute nel corpo della sentenza.

Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale si possa determinare l’aspettativa di una scelta verso la morte ritenuta socialmente o, peggio, economicamente preferibile, penso che ciò non dipenda necessariamente dalla liceità o meno delle scelte eutanasiche o dalla possibilità di consentire al paziente di accettare o rifiutare i trattamenti terapeutici, anche salva vita, ma dall’attuale cultura della morte. Il modo cioè con cui una società tratta i morenti.