PHOTO
“Guidava senza patente e si è finto soccorritore”. “Lo ha smascherato un medico che – lui sì – si era fermato a soccorrere i feriti”. “Un giovane ha tentato di depistare le indagini”. Sono solo alcuni dei titoli con cui i giornali hanno accompagnato la notizia della tragica morte del diciannovenne Pietro Silva Orrego, a seguito di un incidente stradale avvenuto domenica scorsa in viale Fulvio Testi a Milano.
Nei momenti concitati che sono seguiti all'impatto, un medico del Niguarda accorso sul posto per prestare le prime cure ha avuto l'impressione di vedere un ragazzo allontanarsi dall'auto incidentata per poi riavvicinarsi spacciandosi anch'esso per soccorritore, nell'intento di farla franca alle forze dell'ordine poiché alla guida senza patente. Qualche giorno dopo, un'altra versione, decisamente avversa alla prima è stata ritenuta quella vera dagli inquirenti, e cioè che il giovane in questione era veramente accorso per soccorrere gli altri ragazzi e che al suo piede mancava una scarpa perché con quest'ultima aveva tentato di sfondare il vetro.
Ma sulle prime, forse per un riflesso condizionato, gli agenti avevano dato per buona l'impressione fallace maturata nella testa del sanitario. Si potrebbe dire che si è portati più facilmente a credere alle parole di un medico del Niguarda che ad un adolescente senza una scarpa e sporco di sangue.
Ma ci si può parimenti chiedere cosa ci spinga (nessuno del nostro mestiere è immune da questo tipo di errore) a mandare in pagina o online dei titoli che non ammettano alcun dubbio, nemmeno nell'attribuire a una persona la responsabilità della morte di un'altra persona, quando le circostanze di un fatto sono ancora a dir poco nebulose. E soprattutto ci si deve chiedere una volta di più cosa sarebbe successo se questo ragazzo non avesse potuto contare su un video che lo scagionava o sulla buona fede di chi conduce le indagini. Tra gli adagi più traditi della storia del giornalismo (e della giustizia) c'è di sicuro “Il condizionale è d'obbligo”.


