Negli anni Sessanta, quando i cantanti e le cantanti si passavano i brani, le case discografiche imponevano nel testo il cambio di genere: la “lei” declamata da Lucio Battisti o Bruno Lauzi diventava un “lui” nelle versioni di Ornella Vanoni o Mina e così via. Un riflesso bigotto per non incrinare l’immagine pubblica, rigorosamente etero, delle e degli artisti. L’abitudine è andata avanti nei decenni ma oggi per fortuna sta cadendo in disuso.

In compenso non è cambiata la mania di sforbiciare o stravolgere i testi delle canzoni per adattarli ai “valori” contemporanei. È il caso di Fiorella Mannoia che, tra uno spot dell’Enel e una petizione per i diritti umani, ha modificato le parole di “Quello che le donne non dicono”, brano scritto da Enrico Ruggeri, premio della critica al Festival di Sanremo 1987.

Nelle due strofe finali Mannoia rovescia la frase “Ti diremo ancora un altro sì” in “ti diremo un altro no”. Quel “sì”, troppo servile, troppo sottomesso, troppo anni ’80, viene sostituito da un bel “no” granitico, libero, emancipato. Prendiamo La cura di Franco Battiato, non sarebbe ridicolo cambiare il celebre “ti proteggerò” con “arrangiati da sola” per non sollevare sospetti di paternalismo?

Non c’è niente di male nel sentirsi autonome e indipendenti ma infilare l’emancipazione con iI bisturi dentro un testo scritto da altri (Ruggeri c’è rimasto malissimo) è come prendere un quadro dell’Ottocento e aggiungerci gli occhiali da sole perché “così è più moderno”: ti illudi di fare un favore all’arte e alla società mentre è solo chirurgia estetica. Che poi che nessuno vieta a Fiorella Mannoia di scrivere una canzone nuova, fresca, feroce, fiammeggiante, dove sbattere in faccia al vile maschio tutti i “no” del mondo. Sempre che ne sia capace.