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A pochi giorni dall’approvazione unanime (227 voti favorevoli e nessun voto contrario) da parte della Camera dei Deputati della proposta di legge in materia di violenza sessuale credo sia opportuno tornare nuovamente, dopo i miei interventi sul nucleo centrale della futura fattispecie.
Infatti, a fronte della generale convergenza di tutte le forze politiche, sono state sollevate critiche e perplessità, soprattutto da alcuni colleghi avvocati, preoccupati dall’eventualità che incentrare il delitto di cui all’art. 609-bis c.p. sulla mancanza di “consenso libero ed attuale” possa condurre ad una sorta di inversione dell’onere della prova e a una presunzione di responsabilità penale della persona sottoposta alle indagini.
Tale paura – che, se fosse fondata, sarebbe terribile – è stata alimentata da superficiali affermazioni, talvolta del re (il o la solerte parlamentare di turno), talvolta di giornalisti e/o opinionisti più realisti del re. Si è, cioè, sostenuto che, con la nuova formulazione del delitto, non sarà la (per me, comunque sempre “presunta”) vittima a dover provare la violenza sessuale, ma sarà la persona sottoposta alle indagini (e l’imputato) a dover provare la presenza del consenso libero per tutta la durata dell’atto sessuale.
Questa conclusione è, ovviamente, giuridicamente sbagliata. Basterebbe ricordare che l’art. 27 della Costituzione fissa il principio di non colpevolezza: l’imputato non si considera colpevole sino alla sentenza definitiva di condanna. Concetto che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: l’imputato si considera innocente sino alla eventuale sentenza di condanna. Ed allora, tanto più dopo l’introduzione del processo accusatorio, con il Codice Vassalli del 1988, e la modifica dell’art. 111 Cost., intervenuta nel 1999: onus probandi incumbit ei qui dicit non ei qui negat.
Pertanto, non basta che la presunta vittima di violenza sia creduta dal pubblico ministero (e magari prima dalla polizia giudiziaria). Occorrerà sempre che il complessivo corredo probatorio sia in grado di convincere il giudice della colpevolezza dell’imputato «oltre ogni ragionevole dubbio». Emerge, particolarmente in questo campo, proprio il ruolo dell’avvocato, impregnato anche lui di quella cultura della giurisdizione che presunti e gelosi esclusivisti vorrebbero solo nella mente e nelle mani di pubblici ministeri e giudici. In tal senso, mi permetto di sottolineare che le nostre comprensibili preoccupazioni devono essere comunque di ampio profilo, poiché noi avvocati assistiamo professionalmente non soltanto le persone sottoposte alle indagini, ma anche le persone offese.
Certo, il rischio di processi superficiali esiste sempre, per questo e altri reati. Come pure sono possibili aberranti conclusioni, quali quelle condensate nel dolus in re ipsa o nel “non poteva non sapere” o nella responsabilità di posizione tipica di certi settori del diritto penale dell’economia. E, per quel che attiene alle condotte sessualmente connotate, conosciamo le presunzioni talvolta legate ad abusi sessuali su minori che emergono nel corso di cause di separazione o di divorzio. Dunque, occorre essere consapevoli che, accanto a vittime reali, esistono vittime apparenti o simulate e che il consenso, come ogni altro elemento del reato, andrà rigorosamente provato in sede processuale.
Con queste avvertenze, incentrare il delitto di cui all’art. 609-bis c.p. sulla mancanza di consenso può però aiutare a superare l’impostazione vetero-maschilista della vis grata puellae e a ribadire che può non reagirsi alla violenza e si può persino apparentemente acconsentire per il timore delle possibili ulteriori conseguenze (c.d. freezing); e che rileva anche la revoca del consenso, perché l’agente deve interrompere l’atto sessuale ove esso sia divenuto non consensuale.
Concetti, questi, che sono ormai presenti nella giurisprudenza maggioritaria, sebbene – alla luce della attuale formulazione dell’art. 609-bis c.p. – sul filo dell’analogia in malam partem. Ma occorre anche sapere che, soprattutto nella giurisprudenza di merito, emergono letture non sempre condivisibili (per ragioni di sintesi, rimando ai miei Delitti contro la sfera sessuale della persona, 8ª ed., Lefebvre Giuffrè, Milano, 2025, p. 115 ss.).
Così, ad esempio, si è affermato che non sussiste il reato di violenza sessuale quando difetti la costrizione della vittima e non vi sia un chiaro dissenso della persona offesa ovvero una sua condotta oppositiva. Inoltre, si è ritenuto che non sarebbe integrato il reato ove la donna, in occasione di un incontro di lavoro, non abbia espresso istantaneamente il proprio dissenso al compimento di atti sessuali da parte del soggetto attivo, rappresentante sindacale.
Parimenti, non vi sarebbe reato nel caso nel quale una ragazza abbia affermato di avere subìto violenza, perché «non si può affatto escludere che al XY la giovane abbia dato delle speranze, facendosi accompagnare in bagno, facendosi porgere i fazzoletti, tenendo la porta socchiusa, aperture lette certamente dall’imputato come un invito ad osare». E lo stesso dicasi persino nell’ipotesi di rifiuto al compimento di atti sessuali manifestato dalla persona offesa, che potrebbe essere interpretato come ritrosia, meramente formale e “di facciata”, di una donna alle iniziative erotiche del partner.
Quindi, è tempo di eliminare il riferimento alla violenza ed alla minaccia nella fattispecie-base della disposizione sulla violenza sessuale e sostituirvi la mancanza di consenso, in linea con la Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 2013, e con le scelte legislative recentemente fatte da altri Paesi europei, quali la Germania e soprattutto la Spagna e la Francia (peraltro, sulla scia della tradizione anglosassone).
E, se non ora, quando? Conclusione che mi fa piacere riaffermare oggi, poiché celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.


