Come ho già scritto su Il Dubbio, sono molto lieto che, con tutta probabilità, il delitto di violenza sessuale, disciplinato dall’articolo 609-bis del codice penale, sarà presto modificato e incentrato sulla mancanza di un “consenso libero e attuale”. Infatti, in tal senso, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati si è espressa all’unanimità, approvando, pochi giorni fa, un emendamento bipartisan che sostituisce l’intero art. 609-bis c.p.

Peraltro, tale soluzione – che sostengo da ormai quasi trenta anni – è in linea con la Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 2013, e con le scelte legislative recentemente fatte da altri Paesi europei, quali la Germania e soprattutto la Spagna e la Francia.

Tuttavia, il testo approvato in Commissione potrebbe ingenerare dubbi o perplessità – dal mio punto di vista superabili – in ordine al significato dell’espressione “consenso libero e attuale” e critiche (invece, fondate) in relazione alla disciplina prevista dal comma secondo, nonché con riferimento ai casi di minore gravità, di cui al comma terzo.

Per quel che attiene al primo profilo, si è molto ironizzato sulla necessità di un consenso in qualche modo “formalizzato” e sull’obbligo di fare successive domande espresse, ricevendo conseguenti “autorizzazioni”, ove da un atto sessuale si passi ad un diverso atto sessuale.

A mio modo di vedere, la questione può essere agevolmente risolta richiamando le nozioni generali alle quali si è pervenuti in materia di consenso dell’avente diritto, che è un mero atto giuridico, un permesso, e non un vero e proprio negozio giuridico (così, ad esempio, nel mio manuale di Diritto penale, Parte generale, 5ª ed., Lefebvre Giuffrè, Milano, 2025). Da ciò discende che esso è sempre revocabile (naturalmente nei limiti del possibile) e non obbliga il dichiarante.

Inoltre, il consenso deve essere effettivo (cioè, non simulato o scherzoso), libero e privo di vizi (dolo, errore, violenza), contemporaneo alla condotta (non potendo essere né antecedente, né successivo). Esso rileva nei limiti entro i quali è concesso (ad esempio, un soggetto può acconsentire al compimento di un atto sessuale e non acconsentire al compimento di un diverso atto sessuale), nella misura manifestata (se il consenso inizialmente prestato viene revocato, per quella tranche di condotta per la quale non vi è consenso scatterà eventualmente la responsabilità penale) e nei confronti dei soggetti ai quali è rivolto (si può volere compiere atti sessuali con un determinato soggetto, ma non con un altro). Inoltre, non è necessario un consenso espresso, poiché è sufficiente il consenso tacito (cioè, desumibile dal comportamento del titolare del bene: per facta concludentia).

Naturalmente, occorrerà sempre verificare che il soggetto abbia la capacità di intendere e di volere nel momento nel quale si realizza la condotta e, con le peculiarità note in materia di norme contro la violenza sessuale, l’età per manifestare validamente il consenso.

Occorre, infine, fugare un ultimo equivoco. Se è vero che la giurisprudenza (rischiando, però, di incorrere nel vizio dell’analogia in malam partem) è giunta ad una amplissima nozione di violenza o minaccia, la proposta modifica normativa non è né pericolosa, né, all’opposto, inutile.

Sotto il primo profilo, eliminare il riferimento alla violenza ed alla minaccia nella norma sulla violenza sessuale (nella fattispecie-base), e sostituirvi la mancanza di consenso, non significa certo che si debba addivenire ad una affermazione di responsabilità a carico dell’imputato sulla base del mero racconto della pretesa parte offesa. Ma il problema, spostato dalla rigidezza del dettato normativo al più elastico versante dell’accertamento probatorio, rende meno facili forzature in senso restrittivo e permette, in assenza di cristallizzati legami tipici dei sistemi a prova legale, di seguire anche l’evoluzione dei costumi sessuali.

La riforma, poi, non è superflua. Incentrare la violenza sessuale sulla mancanza di consenso può aiutare a superare l’impostazione vetero-maschilista della vis grata puellae e a ribadire che può non reagirsi alla violenza e si può persino apparentemente consentire per il timore delle possibili ulteriori conseguenze della violenza. E può consentire di giungere linearmente alla affermazione di responsabilità nel caso nel quale intervenga una revoca del consenso, qualora il soggetto attivo non interrompa l’atto sessuale divenuto non consensuale.

Così superati, almeno a mio avviso, i dubbi legati alla formulazione del primo comma dell’art. 609-bis c.p., il testo licenziato dalla Commissione Giustizia presenta, invece, altri punti non convincenti. Innanzitutto, in relazione alle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 609-bis c.p., le quali prevedono la condotta di «chi costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità ovvero induce taluno a compiere o a subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o di particolare vulnerabilità della persona offesa al momento del fatto o traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona». Condotte ben diverse, e comparativamente più gravi, di quelle di cui al primo comma.

Nel testo approvato all’unanimità si dispone che tali condotte, però, soggiacciano alla medesima pena prevista per l’ipotesi di cui al primo comma, caratterizzata dalla mancanza di consenso. Ora, sono consapevole che le forze politiche sono, al momento, concordi sul punto, ma uno dei compiti della dottrina è proprio quello di tentare di incidere sulle disposizioni in formazione sottolineandone eventuali aspetti critici: sarà poi ovviamente il Parlamento a decidere come ritiene.

Dunque, mi permetto di suggerire nuovamente: penso che per le ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 609-bis c.p. si debba prevedere un aggravamento di pena che non specificherei, quindi “fino a un terzo”, ai sensi dell’art. 64 c.p. E cioè, una pena un po’ meno grave della pena prevista per le ipotesi ancora più gravi di cui all’art. 609-ter c.p. (ove la pena è, a seconda dei casi, aumentata di un terzo o della metà).

Infine, rimangono i dubbi sui «casi di minore gravità», di cui al comma terzo dell’art. 609-bis c.p. (che comportano una diminuzione di pena in misura non eccedente i due terzi). Siamo infatti al cospetto di una attenuante indefinita che non predetermina i criteri in base ai quali distinguere i «casi di minore gravità» da quelli ritenuti più gravi.

E alle critiche del passato (per le mie, rimando ai Delitti contro la sfera sessuale della persona, 8ª ed., Lefebvre Giuffrè, Milano, 2025) può aggiungersi il dubbio che taluno possa ritenere che le ipotesi di cui al primo comma rappresentino sempre i casi meno gravi di violenza sessuale di cui al comma terzo. Conclusione che, a mio avviso, svilirebbe il senso, anche culturale, della riforma in atto.