C’è chi la mette così: se fondassimo la definizione legale di stupro sul consenso, poi dovremmo girare con il registratore in tasca per garantirci la prova del “sì”?

Per fortuna il dibattito è un po’ più ampio di così, anche se il tema esiste. E investe prima di tutto la dottrina e la giurisprudenza, che in Italia ha “anticipato” il legislatore nell’estendere la fattispecie di violenza sessuale. Il nostro codice penale, articolo 609-bis, continua a fondarla sulla violenza, la minaccia o l’abuso di autorità, senza mai menzionare il concetto di consenso. Anche se la Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013, impone di tipizzare un reato che si regga proprio su tale principio.

La formula si trova all’articolo 36: lo stupro è “un rapporto sessuale senza consenso”, che deve essere espresso “volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. Ma nonostante la Convenzione sia uno strumento internazionale giuridicamente vincolante nell’ambito della violenza di genere, sono ancora molti i Paesi dell’Unione europea che continuano a disattenderla.

Il ritardo dell’Italia è stato già “segnalato” dal Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO), e della necessità di riformare la normativa in materia si è tornato a parlare proprio negli ultimi giorni, dopo un nuovo caso che ha catalizzato l’interesse dell’opinione pubblica. Il fatto è avvenuto nelle Marche, dove la Corte d’appello di Ancona ha appena ribaltato l’assoluzione di un 31enne accusato di stupro, condannandolo a tre anni. A scatenare l’ondata di indignazione sono stati alcuni passaggi della sentenza di primo grado, che sono finiti sui giornali a poche ore dal nuovo verdetto.

Il punto critico riguarda proprio il consenso espresso dalla giovane donna che ha denunciato, 17enne all’epoca dei fatti, che a parere dei giudici “era in condizione di immaginarsi i possibili sviluppi della situazione”. Una frase che ha scatenato le reazioni anche della politica e in particolare delle parlamentari del Pd, che hanno rilanciato una proposta di legge per modificare la fattispecie di violenza sessuale. Si tratta di due testi pressoché identici, firmati da Laura Boldrini alla Camera, dove è già cominciato l’iter, e da Valeria Valente al Senato. La proposta rovescia l’attuale formulazione dell’articolo 609 bis del codice penale (“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”), per porre in primo piano il consenso, che deve restare “immutato durante l’intero svolgersi dell’atto sessuale”. Cioè può essere revocato in qualunque momento e con ogni forma.

Da qui muove anche la giurisprudenza di legittimità, attraverso una serie di sentenze con le quali la Cassazione ha delineato un orientamento volto a “svuotare” il concetto di violenza per riempirlo di nuovi significati. Secondo questa interpretazione, costringere non significa soltanto esercitare forza: è proprio l’assenza di consenso l’elemento centrale su cui si fonda la violenza. Anche quando a un “” segua un “no”: se il dissenso viene manifestato nel corso di un atto sessuale - con parole o tacitamente, tramite azioni - quell’atto è da considerare illecito. Un concetto ormai pacifico, che però pone non pochi problemi sul piano pratico, nell’ambito del processo, e nel necessario bilanciamento tra tutela della vittima e garanzie difensive per l’imputato.

Per cominciare: come si affronta in tribunale un caso in cui non ci sia comprovata violenza fisica? E ancora: il consenso va espresso esplicitamente o va da sé, in mancanza di un no? Ovvero, un mancato sì, equivale a no? La cronaca giudiziaria ci ha insegnato che le reazioni a un stupro possono essere molteplici. C’è chi cerca di liberarsi dell’aggressore reagendo con forza e chi invece resta inerme, come paralizzato, per lo choc e il timore di subire ulteriore violenza. Per questo, sul piano penale, può rilevare anche il contesto in cui si svolge l’atto sessuale e il grado di consapevolezza di chi si trova sul banco degli imputati. «Si è definitivamente giunti, per via giurisprudenziale, alla consacrazione del paradigma del consenso affermativo (“affermative consent”), quale assestamento del diritto vivente: nell’inerzia del legislatore rispetto all’opportunità di riformare la fattispecie di violenza sessuale incentrandola sul consenso, interviene

sistematicamente la giurisprudenza a ridisegnare il volto della norma, attraverso un’interpretatio abrogans dei requisiti della violenza e della minaccia, ritenendo integrato il delitto ogniqualvolta la persona offesa si trovi concretamente nell’impossibilità materiale o psicologica di opporre un rifiuto espresso al rapporto sessuale», spiega Michela Pellini su Giurisprudenza penale. Ma questa impostazione, naturalmente, porta con sé dei rischi. Sia sul piano delle relazioni intime, che che potrebbero irrigidirsi eccessivamente, sia sul piano processuale. Soprattutto nell’ambito dei delitti sessuali, sui quali la pressione dell’opinione pubblica reclama una risposta sanzionatoria “esemplare”. «Portando alle estreme conseguenze il modello del consenso affermativo, si potrebbe arrivare a sostenere che qualora la persona rimanga impassibile e non manifesti espressamente il proprio consenso, sarebbe in ogni caso integrato il fatto tipico, anche in caso di gradimento o di volontà dell’atto da parte della stessa», spiega ancora Pellini. La quale ricorda che nella fattispecie di violenza sessuale «è insito un certo grado di indeterminatezza che appare difficile colmare interamente per via legislativa, eliminando ogni margine di discrezionalità in capo ai giudici».

Un’interpretazione troppo vaga di consenso esporrebbe ogni caso all’arbitrarietà di chi decide, ma al contempo è impensabile “burocratizzare” i rapporti intimi al punto da pretendere che si compili un modulo per non incorrere in guai giudiziari. Trovare il giusto equilibrio è complesso, e ogni paese cerca il suo modello. L’ordinamento inglese, per esempio, si basa sull’assenza di consenso e fissa il confine in tre punti: una persona A commette un reato se l’atto sessuale con B è effettivamente avvenuto, se B non vi acconsente, e se A non è ragionevolmente conscio che B acconsenta. La Germania, invece, ha optato per il “dissenso temperato”: qui l’elemento centrale della fattispecie penale risiede nel rifiuto della persona offesa, che deve essere riconoscibile, seppure tacito.

Il modello normativo tedesco, riformato l’ultima volta nel 2016, punisce la violenza sessuale anche se la vittima non ha opposto resistenza fisica. Ma si distingue dalla legge spagnola, “solo sì è sì”, che dal 2022 pone l’accento sul consenso esplicito. La riforma, chiesta a gran voce dai movimenti femministi, ha cancellato la distinzione tra “abuso sessuale” e “aggressione sessuale” e prevede misure per sostenere le vittime. Ma con qualche “effetto collaterale” imprevisto: la riformulazione che fa convergere diverse condotte in un unico reato, secondo una scala progressiva di sanzioni, ha portato a centinaia di riduzioni della pena e scarcerazioni.

In Francia, il cantiere è ancora aperto: dopo il via libera dello scorso aprile a una prima versione del testo, il 23 ottobre l’Assemblea Nazionale francese ha approvato la stesura definitiva (riformulata da una commissione apposita) che introduce la nozione di “consenso” nella definizione di stupro e aggressione sessuale.

Il voto finale al Senato è previsto per il 29 ottobre, un anno dopo il processo sul caso di Gisèle Pelicot, drogata e stuprata per anni, a sua insaputa, da decine di uomini “reclutati” sul web dal marito. La sua vicenda ha sconvolto la Francia e il mondo intero, fornendo la spinta decisiva per riscrivere l’articolo del codice penale attualmente in vigore, che invece definisce lo stupro come qualsiasi atto di penetrazione sessuale commesso attraverso «violenza, coercizione, minaccia o sorpresa».

Il caso ha aperto una riflessione sul concetto di “sottomissione chimica”, cioè l’annullamento totale della volontà della vittima, ridotta in stato di incoscienza. Una condizione che la legge non prevede, seppure anche la normativa italiana riconosca come aggravante l’inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto. Ciò che resta da scardinare, è l’antica concezione di violenza come espressione di una forza invincibile, a cui è impossibile sottrarsi: il nostro codice penale continua a basarsi su quest’idea, anche dopo la riforma - l’ultima - contenuta nella legge 66 del 1996.