Alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne l’Italia si presenta con due norme-bandiera che capovolgono la cultura dello Stato di diritto e creano un codice penale emergenziale per i reati di genere. Sono due provvedimenti approvati all’unanimità, figli di una cultura inquisitoria che ha messo insieme i sensi di colpa degli uomini nei tempi del “Me too” con gli ideologismi di certo post-femminismo che ha ormai poco a che fare con il movimento storico delle donne.

La prima delle due norme è quella che ha creato il femminicidio come reato autonomo, con la nuova formulazione dell’articolo 577-bis del codice penale che crea un unicum: la pena dell’ergastolo per un omicidio doloso, a prescindere dalla presenza di aggravanti quasi la crudeltà o i futili motivi. Se hai ucciso una donna sei come un mafioso che ha sciolto nell’acido i resti di un bambino. Il concetto è infatti lo stesso che ha costellato, a partire dalla fine degli anni ottanta, tutta la legislazione di emergenza dei reati legati a fatti di mafia o terrorismo.

Alla base un concetto di apparente buon senso. Se il reato è particolarmente odioso, rinunciare ai principi di civiltà giuridica può ben valere il sacrificio. Indimenticabile, prima ancora della legislazione speciale introdotta dopo gli assassinii dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’intervento del governo Andreotti che nel 1989, per sventare il rischio che alcuni imputati del Maxiprocesso contro Cosa Nostra uscissero dal carcere per decorrenza dei termini, varò dalla sera alla mattina un decreto che raddoppiò i termini di custodia cautelare per il reati di mafia. Il gioco valeva la candela, evidentemente, nonostante il ministro guardasigilli di quel governo si chiamasse Giuliano Vassalli. Il padre del nuovo codice di procedura penale con l’introduzione del sistema “tendenzialmente” accusatorio, che era entrato in vigore proprio quell’anno.

Ma lo spirito dell’inquisizione non ci ha mai abbandonato, soprattutto nelle resistenze al nuovo sistema da parte della magistratura, che non si è mai rassegnata. E la legislazione “antimafia” con i suoi doppi binari e le tante cadute di incostituzionalità, è un fardello che poggia ancora sulle spalle dello Stato di diritto.

Non è diversa la filosofia che ha ispirato l’altra norma di tipo emergenziale per i reati di genere, quella sulla violenza sessuale. Con l’unanimità del Parlamento e anche un certo tripudio bipartisan, dopo la votazione della Camera dei deputati che lo scorso 19 novembre ha varato la modifica dell’articolo 609-bis in allineamento alla Convenzione di Istanbul, entrata in vigore nel 2014 e già approvata da 21 Paesi europei. E’ la seconda svolta culturale dopo quella che portò alla legge del 15 febbraio del 1996, quella che collocava nel codice penale la violenza sessuale tra i reati contro la persona.

Nel codice Rocco, e precedentemente in quello albertino, lo stupro era un reato contro la morale. Non ci fu tripudio quel giorno, e qualche collega uomo fece una certa resistenza, anche se l’accordo tra donne era stato fortemente voluto (ricordo personale: ero la presidente della Commissione giustizia della Camera che portò con pervicacia la proposta in porto). Fu una svolta di civiltà. Il testo della norma diceva “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”. La novità culturale di oggi è basata sul consenso nei rapporti sessuali. E stabilisce che “chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali a un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima, è punito con la reclusione da sei a dodici anni”.

È ovvio che qualunque atto non scelto volontariamente sia violenza. Né si può ritenere che la reazione della vittima, magari la sua passività, possa essere considerata consenso. Al contrario, sappiamo benissimo come la paura, il timore, a volte persino la vergogna possano indurre un comportamento “neutro” che può essere scambiato per consenso. Appunto, scambiato, a volte per errore di interpretazione. Ma con la nuova norma è palese che la persona denunciata di violenza si troverà davanti a un giudice che gli chiederà di esibire una “probatio diabolica”, una prova impossibile della sua innocenza.

Data l’indeterminatezza della norma, come potrà dimostrare di non aver forzato il libero consenso della vittima? E, nel corso del rapporto, come potrà interpretare il desiderio dell’altro-a di revocare il consenso? Perché una cosa è certa, che spetterà a lui (diamo per scontato sia un uomo) il compito di dimostrare la propria innocenza, dopo la denuncia. Il ministro Carlo Nordio, interpellato su questa inversione dell’onere della prova che viola il principio di non colpevolezza, ha detto che comunque la norma “deve essere coniugata” insieme al rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Quindi l’indagato è totalmente, in violazione dei diritti della difesa e del contraddittorio, nelle mani dell’interpretazione del pubblico ministero e poi del giudice, e della loro capacità di “coniugare”. Siamo tornati all’inquisizione, nel nome delle donne?