È allo spirare del cinquantenario del nostro ordinamento penitenziario del 1975, e nella ricorrenza del “giubileo dei detenuti”, che l’universo carcerario del nostro Paese mostra il suo volto peggiore. Non solo per il degrado delle strutture, clamorosamente manifestato dal crollo del tetto di Regina Coeli e dagli incendi di San Vittore, ma per la sufficienza con la quale il Governo continua a trattare l’emergenza drammatica di questa crisi. Nonostante gli interventi del Presidente del Senato, del Vicepresidente del CSM e quello del Garante nazionale dei detenuti, nessuno spazio si è aperto.

Sono rimasti d’altronde inascoltati anche gli appelli del Presidente Mattarella, di Papa Francesco - che proprio a Rebibbia aveva aperto una Porta Santa - e di Papa Leone - in visita al carcere di Rebibbia femminile – perché si intervenisse con atti di clemenza. Nessun segnale di apertura si è visto, nonostante il numero impressionante dei 166 suicidi degli ultimi due anni, per non dire dei tentati suicidi, degli atti di autolesionismo, delle centinaia di decessi per altri motivi, delle aggressioni e dei numerosi suicidi anche fra i rappresentanti della polizia penitenziaria. Sintomi di una condizione di generalizzato degrado, vergognosa ed inaccettabile per un paese civile ed uno stato di diritto che in tal modo tradisce i valori costituzionali posti a tutela dei valori della vita, della dignità e dell’umanità.

L’avvocatura penale, assieme a tutte le associazioni e le istituzioni che da sempre si occupano delle condizioni dei detenuti, Nessuno Tocchi Caino, Antigone, i Garanti, si è impegnata con tutti gli strumenti che la politica consente perché si ponesse mano ad interventi di riduzione del sovraffollamento, dall’amnistia e l’indulto fino all’ipotesi del “numero chiuso”.

Si sono susseguite in questi anni astensioni e manifestazioni nelle piazze di tutte le città, fiaccolate e maratone oratorie, convegni ed eventi di ogni tipo volti a sensibilizzare la politica e il Pese, interloquendo a tal fine con tutte le forze parlamentari. L’Unione delle Camere Penali ha unito la sua voce a quella dell’Accademia e ha poi congiuntamente con l’Accademia e con la Magistratura più volte sollecitato, formalmente e pubblicamente, il Governo ad intervenire. Abbiamo rilanciato la proposta Bernardini- Giachetti per un una liberazione anticipata speciale ed ogni altra ipotesi di intervento emergenziale, mentre il tasso di sovraffollamento saliva ininterrottamente e le condizioni detentive peggioravano progressivamente. Sono rimasti inascoltati tutti i nostri appelli perché si provvedesse a riportare i livelli del sovraffollamento a livelli compatibili con la tenuta delle risorse relative alla sicurezza, all’assistenza sanitaria e psichiatrica e al trattamento. Abbiamo sottolineato come ogni rimedio in tal senso non avrebbe significato una abdicazione bensì un minimo risarcimento nei confronti di coloro che erano stati costretti ad espiare la loro pena in condizioni inumani e degradanti.

Abbiamo ripetuto in tutti i modi che sottoporre un condannato a simili trattamenti non è affatto il linea con la proclamata volontà di tutelare e di promuovere la sicurezza dei cittadini, perché coloro che riacquistano la libertà dopo aver vissuto anni in quelle condizioni di prostrazione e di alienazione, sottratti ad ogni attività trattamentale, non sono affatto esseri umani migliori, ma individui abbandonati alla recidiva. Se quella grande riforma, di cui si festeggiava l’anniversario, abbracciava il principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene, il Giubileo ci ha ricordato egualmente che pena, carcere e detenzione non possono essere mai sinonimo di disperazione e di sofferenza e non possono essere disgiunte dalla speranza di un futuro migliore. Ma di tutto questo sembra essersi persa nel tempo ogni consistenza morale e materiale, così che l’istituzione carceraria è precipitata nell’incuria sia sotto il profilo dello sviluppo delle idee, che sotto il profilo delle strutture. Si è spenta la motivazione e la carica politica che aveva animato quella riforma ed aveva fatto immaginare un possibile superamento della forma carcere, sotto il profilo ideologico ed organizzativo e, ovviamente, sotto il profilo architettonico. Ne è derivato un abbandono progressivo della spinta ideale e la riproduzione di moduli concettuali che avremmo dovuto lasciare al passato, e di slogan securitari tanto insensati quanto ingannevoli. Anziché fermarsi a ripensare il modello si sono imposte nuovamente l’idea di sicurezza e trattamento come paradigmi contrapposti e si è consolidata la prospettiva di una forma-carcere come dato strutturalmente insuperabile: in una sorta di coazione a ripetere il carcere si riproduce in altrettanti “moduli detentivi” emergenziali, mentre le vecchie strutture degradano progressivamente, così che il vecchio si rigenera in un “nuovo vecchio” senza alcuna speranza di riscatto.

Un “nuovo vecchio” che lavora contro lo stesso progresso sociale e contro la sicurezza dei cittadini. Ma proprio per svelare l’ipocrita contraddizione di questa cultura, continueremo, oltre il cinquantenario e il Giubileo dei detenuti, a denunciare, a manifestare e a fare sentire la nostra voce, anche perché oggi, diversamente dagli anni passati, le parole spese in questo costante impegno si sono finalmente aperte un varco nell’opinione pubblica e l’emergenza carcere è divenuto un tema anche per l’informazione. Il Paese ha compreso come il carcere non è un luogo estraneo alla nostra convivenza civile, ma un pezzo importante della società, per cui c’è davvero solo da chiedersi, di fronte al collasso, quanto tempo ancora si potrà rimanere indifferenti davanti a un dramma che riguarda la vita di tutti i cittadini.