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Et voilà, il re è nudo. Quel che da anni noi del Dubbio cerchiamo di denunciare - ovvero l’osmosi tossica tra media e giustizia - ora è lì davanti a noi, scritta nero su bianco, inchiodata in un fascicolo giudiziario belga.
Lo scoop di Simona Musco non racconta solo uno scandalo: racconta la nascita del processo mediatico. Ne cristallizza il meccanismo perverso, lo fotografa nel momento esatto in cui prende forma.
E così scopriamo (si fa per dire) che ogni inchiesta ha bisogno come l’aria di una stampella mediatica. E la stampa – che diventa magicamente portavoce delle procure – accoglie tutto in modo del tutto acritico, rinunciando alla sua funzione originaria: controllare il potere, ogni potere, a cominciare proprio da quello giudiziario.
Qui non siamo davanti a una semplice fuga di notizie, a una talpa isolata o a una distrazione. Siamo davanti a un sistema. Una filiera. Un patto: voi ci date gli scoop in anticipo, noi li pubblichiamo. Un vero e proprio coordinamento operativo che non fa solo carne da macello della presunzione d’innocenza ma anche della libertà di stampa, che diventa scendiletto del potere giudiziario.
Il dossier belga lo racconta in modo impietoso: chat su Signal, bozze di articoli inviate alla polizia prima ancora che partissero le perquisizioni, titoli concordati. Insomma, il giorno prima del Qatargate, la sceneggiatura dello scandalo era già pronta. Altro che giornalismo d’inchiesta: era giornalismo embedded, nella mani dell’apparato investigativo: la toga detta la linea, la penna trascrive diligentemente. E il pubblico applaude pensando di assistere a un trionfo della legalità, quando in realtà sta consumando il canovaccio di una farsa.
E allora il vero scandalo non è più la presunta corruzione - tutta da dimostrare - ma lo spettacolo penoso di una giustizia e di un giornalismo che perdono ogni credibilità. In questa messinscena c’è un tratto che conosciamo benissimo anche in Italia: la stampa che smette di interrogare l’accusa e si limita a moltiplicarne l’eco, e i pm magicamente trasformati in guide morali. È quella che il professor Vittorio Manes chiama “asimmetria informativa” ed è il pilastro del giustizialismo mediatico: il teorema accusatorio del pm elevato a sentenza, la gogna pubblica che rende del tutto superfluo il dibattimento e la reputazione distrutta a prescindere dall’esito processuale.
Il caso Qatargate mostra il cuore vero del problema: non esistono più barriere certe tra organi inquirenti e apparati mediatici. Si scambiano favori, informazioni, tempi di pubblicazione. Gli uni aiutano gli altri a costruire la narrativa del “grande scandalo”, che serve a legittimare l’azione giudiziaria prima ancora che venga portata in un’aula di tribunale. È un cortocircuito perfetto: la stampa dà potere alla magistratura, la magistratura offre “scoop” alla stampa. Tutti vincono. Tutti tranne un paio di cosette: la libertà e la decenza.


