C’è la veste rosa della domenica della gioia, la terza d’Avvento, quella che nella liturgia si chiama Gaudete. E c’è Papa Leone XIV che domenica scorsa ha celebrato la Messa del Giubileo dei Detenuti nella Basilica di San Pietro, davanti a cinquemila persone. Detenuti usciti con permesso speciale, volontari che hanno lasciato le famiglie e il riposo domenicale, operatori di tutte le aree del sistema penitenziario. Facce che per una volta escono dall’asfittico quotidiano delle mura. Pellegrini di speranza, come dice il tema del Giubileo. Ma la speranza, in queste ore, deve fare i conti con la realtà. E la realtà è quella di un sistema che continua a crollare, letteralmente.

Perché mentre in Vaticano risuonano le parole del Pontefice – «Nessuno vada perduto», «la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione» – a Milano il carcere di San Vittore brucia. Non è una metafora. È cronaca nera. Sabato, verso mezzogiorno, un cortocircuito in un quadro elettrico sprigiona un principio d’incendio e una nube di fumo nero. I vigili del fuoco domano il primo focolaio alle 15.30. Ma la notte porta un secondo incendio, nel sottotetto adiacente alla cupola della rotonda. Di nuovo le fiamme, di nuovo l’intervento. Stavolta nessun ferito, ma un intero reparto senza corrente elettrica. Duecentocinquanta detenuti evacuati d’urgenza, trasferiti a Bollate e in altre carceri della Lombardia, alcuni persino fuori regione.

È su questo sfondo di emergenza continua che le parole di Leone XIV assumono un peso specifico diverso, quasi politico. Il Papa non ha usato mezzi termini. Ha guardato negli occhi le migliaia di pellegrini venuti da ogni carcere d’Italia e d’Europa – detenuti in permesso, semiliberi, ex detenuti – e ha detto: «Il carcere è un ambiente difficile, e anche i migliori propositi vi possono incontrare tanti ostacoli. Proprio per questo, però, non bisogna stancarsi, scoraggiarsi o tirarsi indietro, ma andare avanti con tenacia, coraggio e spirito di collaborazione». C’è un realismo disarmante in questo pontificato.

Leone XIV sa che la tenacia richiesta a chi vive dentro è sovrumana. Sa che il sovraffollamento non è solo un numero statistico da sventolare nei convegni, ma è la carne viva delle persone che non hanno spazio per muoversi, per respirare, per pensare. «Sono molti, infatti, a non comprendere ancora che da ogni caduta ci si deve poter rialzare», ha insistito il Papa, «che nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e che la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione».

Eccola, la sfida. Scindere l’uomo dal reato. Un concetto che la nostra politica attuale sembra aver dimenticato, persa com’è nella rincorsa al “buttare la chiave” e nella creazione di nuove fattispecie di reato che servono solo a riempire istituti già al collasso. Mentre il Papa invoca clemenza, il governo risponde con l’inerzia o, peggio, con la solita edilizia penitenziaria che non scalfisce la roccia del problema. I dati sono impietosi e non ammettono repliche. Siamo ben oltre la soglia di tolleranza. Il tasso di affollamento reale in istituti come San Vittore, Regina Coeli o Canton Mombello viaggia su percentuali che in un Paese civile farebbero saltare le poltrone dei ministri. Invece qui si discute, si fa melina. E intanto le celle bruciano. Il cortocircuito di Milano non è solo elettrico, è istituzionale. È il cortocircuito di uno Stato che prende in custodia delle persone e poi non è in grado di garantire la loro incolumità fisica, figuriamoci il loro reinserimento sociale.

Amnistia e indulto Leone XIV lo sa. E nella sua omelia non gira intorno al problema. Parla del carcere come ambiente difficile, dove anche i migliori propositi possono incontrare tanti ostacoli. Ma proprio per questo, dice, non bisogna stancarsi, scoraggiarsi o tirarsi indietro. Il Papa ricorda il predecessore Francesco, che il 26 dicembre 2024 aveva aperto la Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia. E rilancia quell’appello: «Due cose vi dico. Primo: la corda in mano, con l’ancora della speranza. Secondo: spalancate le porte del cuore».

Ma c’è di più. Leone XIV fa sua la richiesta contenuta nella Bolla di indizione del Giubileo, quella che Papa Francesco aveva scritto nero su bianco: «Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena». Il Pontefice guarda oltre l’Atlantico, pensa al Nicaragua, alla Colombia, al Venezuela. Ma pensa anche e soprattutto all’Italia. «Confido che in molti Paesi si dia seguito al suo desiderio», dice. È un appello diretto alle istituzioni. Un appello che cade, finora, nel vuoto. Perché la risposta del governo italiano è stata chiara, netta, quasi seccata. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio l’ha ribadito più volte: «Amnistia e indulto sono manifestazioni di debolezza». Non se ne parla. Il sottosegretario Andrea Del Mastro delle Vedove e il sottosegretario Alfredo Mantovano hanno fatto muro. Anche il giorno del Giubileo dei Detenuti, nessuna apertura. Solo silenzio, o peggio, contrarietà esplicita.

Due giorni prima della celebrazione vaticana, il Senato aveva ospitato un convegno dal titolo eloquente: «Dignità e diritti in carcere. Verso il Giubileo dei detenuti, le proposte dei Garanti». Novantanove garanti territoriali delle persone private della libertà, autorità indipendenti elette dalla politica ma indipendenti dalla politica, come ha tenuto a precisare il portavoce della Conferenza nazionale. «Il baluardo del nostro agire è la Costituzione», ha detto.

E dalla Costituzione parte la loro denuncia. I numeri sono impietosi: 63.500 detenuti stipati in 46.500 posti disponibili. Sovraffollamento medio del 133 per cento, ma in alcuni istituti si sfiora il 200 per cento. Regina Coeli a Roma? 191,3 per cento. San Vittore? 229 per cento, come abbiamo visto. «Ma di che ci dobbiamo occupare?», si è chiesto retoricamente il portavoce dei garanti. «Noi non ci occupiamo di esecuzione penale. Noi ci occupiamo di sociale». Ventimila stranieri, diciassettemila tossicodipendenti, 4.200 malati di mente. Tredicimila in custodia cautelare, quindi ancora senza una condanna definitiva.

La voce dei volontari Eppure, nella giornata di domenica, c’è anche altro. Ci sono gli sguardi di tanti detenuti, quelli che per una volta sono potuti uscire dalle loro celle e andare a Roma. Ci sono i volontari, quella preziosa energia del mondo penitenziario di cui ha parlato il Papa. Persone che hanno lasciato famiglie e riposo per accompagnare i loro amici detenuti fino in Vaticano. C’è l’allegria, per una volta. C’è la possibilità di vedersi fuori dal quotidiano delle mura. E ci sono le ostie e il crocifisso prodotti dai detenuti stessi, usati durante la celebrazione. Piccoli segni di un’umanità che resiste, che non si arrende, che continua a credere nella possibilità del riscatto.

Come ha detto Leone XIV citando Sant’Agostino, alla fine dell’incontro tra Gesù e l’adultera rimasero «la misera e la misericordia». È questa la cifra del Giubileo: la misericordia verso chi è caduto, la speranza che nessuno sia definitivamente perduto. Ma la speranza non basta. Servono i fatti. E i fatti, per ora, raccontano un’altra storia. Quella di un sistema al collasso, di strutture che bruciano, di persone che si tolgono la vita. Leone XIV ha indicato la strada: «Sono molti a non comprendere ancora che da ogni caduta ci si deve poter rialzare, che nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto». È un richiamo alla politica, alle istituzioni, alla società tutta.