In un Paese irrigidito, che ha paura persino della propria ombra, può succedere – anzi succede – che chi vende o cede una semplice pianta o i suoi derivati, pur privi di qualsiasi effetto stupefacente, venga trattato alla stregua di Pablo Escobar. Così l’innocuo diventa crimine e criminali diventano cittadini, imprenditori, produttori che quella foglia l’hanno coltivata, venduta e acquistata seguendo le leggi dello stesso Stato che ora li condanna.

E, sempre in questo Paese irrigidito, può succedere – anzi succede – che un caso di “spaccio” venga archiviato dal Pubblico Ministero di Roma e accolto dal GIP senza una riga di motivazione (a proposito di separazione delle carriere!) perché qualificato come azione politica “dimostrativa”. Come se la finalità politica bastasse a trasformare un reato in un gioco.

A maggio, dopo l’entrata in vigore del Decreto Sicurezza che, con l’art. 18, ha equiparato la cannabis light alla cocaina, ho aperto un CBD shop nella sede di Radicali Italiani a Roma. Due giorni dopo – e solo dopo aver reso pubblica l’azione davanti a Palazzo Chigi e aver sommerso di segnalazioni i Carabinieri – è arrivata la denuncia. L’obiettivo era semplice e trasparente: costringere l’articolo 18 ad essere processato, mostrarne l’inconsistenza giuridica e l’evidente contrasto con i principi costituzionali.

“Il ragionato stravolgimento di tutti i sensi”. Quella frase di Rimbaud – che Pannella usava come antidoto all’immobilismo del potere – indica la tecnica con cui si ribalta l’ordine apparente per rivelare ciò che esso nasconde. È uno stravolgimento lucido, non impulsivo: esattamente ciò che fa la disobbedienza civile quando mette a nudo l’assurdo della legge. Ed è per questo che sono tornato a disobbedire. Sono tornato a farlo al mercato di Piazza Foroni, a Torino. Con me avevo un tavolo pieghevole, mezzo chilo di cannabis light in sacchetti trasparenti, un bilancino di precisione, il denaro delle – numerose – vendite. Le persone si fermavano: alcune incredule, altre sostenitrici dell’azione politica, molte semplicemente per acquistare alla luce del sole un prodotto condannato a stare nell’ombra. Intorno, un paio di spacciatori veri che fotografavano la scena: a loro infastidivamo noi, non di certo i proibizionisti che ingrassano mafie e criminalità.

Poi l’intervento di quattro Carabinieri, che mi hanno portato via. Cinque ore in caserma tra fotosegnalamenti, perquisizioni, verbali. Infine, la denuncia – spaccio – a piede libero. Cinque ore sottratte alla lotta contro chi mette davvero in pericolo la società, moltiplicate per le decine di casi simili: questa è la misura del fallimento del proibizionismo. Per pura coincidenza, nelle ore successive, il GIP di Brindisi sollevava questione di legittimità costituzionale proprio sull’articolo 18.

E forse è proprio grazie alle disobbedienze e a queste prime scintille nei tribunali, che la maggioranza più proibizionista della storia repubblicana ha tentato un’improbabile giravolta: un emendamento – a prima firma del senatore Gelmetti – che avrebbe introdotto una supertassa sul CBD, liberando però il settore dal circuito penale. Un attimo di lucidità, subito soffocato dalla vergogna della retromarcia. Risultato: emendamento ritirato. Ed è per questo che la disobbedienza rimane la via principale.

La cannabis light è diventata il simbolo di uno Stato dogmatico che sta imboccando una deriva preoccupante. Non è solo una questione legata all’antiproibizionismo: è la scelta di difendere dei principi costituzionali che sono emblema di uno Stato che si definisce di diritto. E allora sì: quel “ragionato stravolgimento di tutti i sensi” rimane centrale. Ieri serviva a conquistare nuovi diritti, oggi – ahinoi - a impedirne lo smantellamento. Domani – temo – sarà l’unico modo per continuare a difendere un’idea semplice: che una libertà, se non fa male a nessuno, non va mai compromessa.