Nella giornata in cui è stata raggiunta l’intesa tra Israele e Hamas per il cessate il fuoco sulla Striscia di Gaza rimarranno impresse due scene. La prima riguarda il Segretario di Stato Usa, Marco Rubio, che porge un foglio di carta in cui viene comunicata a Donald Trump la notizia dell’accordo tra le parti in causa in Medio Oriente; la seconda scena, immortalata dagli onnipresenti smartphone, è quella della telefonata che ha fatto il presidente degli Stati Uniti ai familiari di alcuni ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas per annunciare loro l’imminente liberazione.

Donald Trump, nonostante venga considerato da molti osservatori “inaffidabile” e “umorale”, sembra essere il vero vincitore della sfida per voltare pagina in Medio Oriente. «Trump – dice Gianluca Pastori, professore associato di Storia delle relazioni politiche tra Nord America ed Europa nell’Università Cattolica di Milano ed esperto di Relazioni transatlantiche dell’Ispi – è stato in grado di entrare in sintonia con Netanyahu rispetto a chi lo ha preceduto alla Casa Bianca e cercherà di sottolineare sempre di più i risultati che sta ottenendo in queste ore».

Professor Pastori, l’accordo sul cessate il fuoco a Gaza è un successo prima di tutto di Donald Trump?

«Sicuramente è un successo del presidente statunitense, che, però, anche se non lo farà mai, dovrà condividerlo con altri importanti mediatori impegnati a Sharm el- Sheikh. Il risultato di queste ore è il prodotto di uno sforzo collettivo che coinvolge, oltre agli Stati Uniti, il Qatar, la Turchia e una pluralità di attori. Trump si assicurerà la maggiore visibilità, dato che, bisogna riconoscerlo, ha svolto un ruolo importante nel convincere soprattutto Israele ad accettare alcune parti dell’accordo per il cessate il fuoco».

Gli Stati Uniti quando vogliono possono risolvere alcune gravi crisi. Cosa ne pensa?

«Sicuramente, quando vogliono, ma ancora una volta quando riescono a mettere in moto alcuni meccanismi. Gli Stati Uniti sono importanti, restano importanti, sarebbe sciocco negare la loro centralità, ma non sono il deus ex machina. Non sono l’unico attore che può risolvere tutte le crisi del mondo».

Washington adesso rafforzerà la sua influenza nel Medio Oriente, grazie anche al coinvolgimento e al sostegno del Qatar?

«Sì, Donald Trump, fin dagli anni del primo mandato, nel 2017, aveva mostrato di guardare con molta attenzione al Medio Oriente. Si tratta di una regione in cui da diverso tempo stanno cambiando logiche ed equilibri. È quindi comprensibile che gli Stati Uniti rivolgano a quell’area sempre più attenzione».

La strategia usata dagli Stati Uniti servirà anche ad indurre a più miti consigli da qui in avanti Israele?

«Questo è difficile da prevedere. Negli ultimi anni mi sembra che Israele si sia molto autonomizzata dal sostegno statunitense e abbia anche, lo abbiamo visto ad esempio con Joe Biden, portato avanti una politica propria, spesso contraria a quella di Washington. Con Trump vi è una sintonia maggiore, perché il presidente statunitense e Netanyahu sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda. Cosa che mancava rispetto ai tempi dei rapporti tra Netanyahu e Biden. Comunque, non sopravvaluterei la capacità di Washington di incidere sulle scelte di Israele».

Intanto negli Stati Uniti proseguono nelle università le proteste degli studenti pro- Pal. Pensa che Trump sarà più morbido nei loro confronti o, forte del successo ottenuto in Medio Oriente, ne approfitterà per usare la mano pesante?

«Non credo proprio che sarà più morbido e non credo che il successo in Medio Oriente gli consentirà di calcare la mano. Di sicuro il successo di queste ore sarà usato da Donald Trump per dimostrare che la sua amministrazione riesce a fare molto di più e meglio rispetto alla “sinistra” che protesta. La prosecuzione delle proteste negli Stati Uniti agli occhi di Trump e della sua narrazione servirà soltanto a dimostrare la mala fede del partito Democratico» .

Dopo Gaza, potrebbero arrivare buone notizie anche per l’Ucraina con il cessate il fuoco nel “cuore dell’Europa”?

«L’Ucraina ha un posto in alto nella lista delle priorità di Trump. La situazione, però, a mio avviso, è più complicata. Russia e Ucraina hanno, per quanto la cosa possa sembrare paradossale, posizioni più difficili da conciliare rispetto a Israele e Hamas. Fra Israele e Hamas si profilava la possibilità di un do ut des intorno alla questione degli ostaggi. Tale formula per l’Ucraina non mi sembra che in questo momento possa essere applicata».

Il risultato di Trump è un monito per l'Europa che non riesce ad incidere in alcune gravi crisi?

«Sicuramente sì. Il problema dell’Europa è molto più profondo. L’Europa ha già dimostrato in abbondanza di non saper far valere il proprio peso in determinate situazioni. In merito al conflitto nella Striscia di Gaza, credo che avremmo volentieri tutti fatto a meno di questa ulteriore dimostrazione».

Oggi viene assegnato il premio Nobel per la pace. Trump ci crede?

«Probabilmente sì. Negli anni passati abbiamo visto assegnare il Nobel per la Pace a persone altrettanto bislacche. Ma se vogliamo parlare di possibilità reali, mi sembra molto difficile che il Nobel venga dato a Trump. Non fosse altro perché è una figura estremamente divisiva e dietro al Nobel per la Pace ci sono sempre delle considerazioni politiche importanti».