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PAOLO FERRUA DOCENTE
Paolo Ferrua, emerito di procedura penale all’Università di Torino, qual è la cornice all’interno della quale vorrebbe approvarsi la separazione delle carriere?
La maggiore crisi oggi riguarda, prima ancora dell’ordinamento giudiziario, il processo penale, stretto tra due temibili nemici: da un lato, la riforma Cartabia che ha distrutto il modello accusatorio e che, purtroppo, permane ancora immutata; dall’altro, l’intelligenza artificiale che non solo rischia di affievolirci il cervello allo stesso modo in cui ci siamo disabituati all’uso della penna, ma, in un prossimo futuro, propone di farci giudicare dai computer, nonostante non sia affatto chiaro come si possa efficacemente instaurare il contraddittorio con simili ordigni.
Della riforma costituzionale targata Nordio cosa pensa?
Dirò subito che, quanto alla separazione delle carriere, vi è motivo per condividere, ma anche per dissentire rispetto a quanto sostenuto sia dalla magistratura sia dall’Unione delle Camere penali. Iniziando dalla magistratura, è un dato di fatto che ogniqualvolta si profila all’orizzonte il tema della separazione delle carriere, reagisce in due modi. Il primo è di esprimere il forte timore che essa conduca ad un assoggettamento del pm a controlli politici; il secondo di insistere su logore formule quali il pm parte- imparziale e organo di giustizia, o su slogan come la cosiddetta cultura della giurisdizione, pronosticando, con la separazione delle carriere, la conversione del pm in un implacabile accusatore.
Non è così?
Il primo timore appare perfettamente fondato. Il ministro afferma di essere recisamente contrario a una dipendenza del pm dal potere politico. Ammessa la sua buona fede, non può, tuttavia, ipotecare il futuro, escludendo che in un secondo tempo si addivenga a un collegamento del pm con l’Esecutivo o con il Parlamento. Dirò di più: penso, con Franco Cordero, che la separazione delle carriere, nell’ambito di una magistratura non elettiva ma reclutata per concorso, abbia un senso solo se accompagnata da un controllo politico sul pm. Come afferma il grande giurista, «l’autarchia indebolisce i controlli sull’attore penale, confinandoli in uno spazio interno al corpo togato. Un apparato requirente a vertice ministeriale sarebbe meno esposto dell’attuale a disfunzioni». E credo che a pensarlo siano in molti proprio tra i sostenitori della separazione delle carriere, pur tacendolo per ragioni tattiche, volte a rassicurare i magistrati con la favola di un’assoluta indipendenza del pm.
Ma lei, quindi, è d’accordo anche con Luciano Violante che lancia l’allarme in vista della creazione di una “casta dei pm”?
All’interno di un corpo numericamente ridotto di pm, una mera separazione delle carriere, che lasci intatta la loro piena indipendenza, porterebbe ad una temibile concentrazione di poteri nelle mani dei vertici. D’altronde, la dipendenza dal potere politico non sarebbe affatto un golpe; e potrebbe realizzarsi con un’ulteriore modifica costituzionale o fors’anche, più limitatamente, senza una revisione della Costituzione, la quale mostra una certa ambiguità, quanto ad indipendenza del pm. È vero che l’art 104 comma 1 Cost parla della magistratura come di «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». Tuttavia, la soggezione alla sola legge è contemplata esclusivamente per i giudici ( art. 101 comma 2 Cost.); per il pm ci si limita a dire che «gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» ( art. 107 comma 4 Cost.), lasciando intendere che le garanzie possano essere diverse da quelle previste per i giudici. Aggiungo che, nei panni di un pm, una volta realizzata la separazione delle carriere e insieme l’Alta Corte, probabilmente sarei io stesso a reclamare un collegamento con il potere politico, piuttosto che dipendere dagli umori del procuratore capo.
Però resta l’obbligatorietà dell’azione penale.
Ma questa può tranquillamente permanere anche con la dipendenza dal potere politico, come dimostrato da Cordero, che ha messo bene in luce l’errore di Calamandrei, secondo cui un collegamento con l’esecutivo aprirebbe la strada alla discrezionalità dell’azione penale. L’ordine impartito dal ministro al pm di soprassedere dall’azione penale è illegittimo, né esonera da responsabilità il pubblico ministero che obbedisca senza eccepire l’abuso. L’azione penale deve restare obbligatoria quanto più il pm dipenda dal potere politico.
Passiamo al secondo aspetto, al pm parte imparziale.
Credo sia un grave errore della magistratura continuare ad affermare l’imparzialità del pubblico ministero. In un processo degno di questo nome, specie se accusatorio, chiunque non sia giudice è, per logica esclusione, parte. Idem per la c. d. cultura della giurisdizione, la quale o riguarda solo il giudice o deve coinvolgere le tre forze dell’accusa, della difesa e del giudizio: limitata al pm e al giudice sarebbe un tavolo traballante. Di imparzialità per il pm si può parlare solo nel senso in cui l’art. 97 comma 2 Cost. ne parla per la pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e dell’eguaglianza tra i cittadini. Che il pm possa chiedere l’archiviazione deriva semplicemente dalle norme che subordinano il rinvio a giudizio alla sussistenza di elementi idonei a sostenere l’azione penale. E altrettanto vale per la richiesta di assoluzione, essendo la condanna subordinata alla prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Il processo è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro: ogni alterazione di una singola componente si ripercuote sulle altre. L’esperienza documenta che, se il pm latita nella sua funzione di accusa, il giudice rischia di convertirsi in accusatore.
Purtroppo, i vertici della magistratura, presenti nelle commissioni ministeriali, hanno approvato la riforma Cartabia, pensando che disseminare l’indagine di finestre e controlli giurisdizionali potesse costituire una valida alternativa alla separazione delle carriere, senza tenere conto della pesante contropartita che ne derivava: ossia, la distruzione del processo accusatorio, che per sua natura esige un’indagine snella e non troppo formalizzata, tale da consentire il rapido passaggio alla fase del dibattimento.
Professore ma se davvero si voleva combattere una certa ipertrofia del pm non “bastava” una seria riduzione dei reati?
Occorre invertire la regola sinora seguita. Anziché penalizzare ad libitum per poi malamente processare, bisogna penalizzare solo per quel tanto che si può decorosamente processare.
Veniamo all’Unione delle Camere penali.
Dell’Ucpi ho sempre ammirato le gloriose crociate per i diritti di libertà; a partire da quella intrapresa da Giuseppe Frigo per la riforma costituzionale dell’art. 111. Senza il suo intervento, saremmo ancora al processo come lo aveva ridotto la Corte costituzionale nella svolta inquisitoria con le tre famigerate sentenze del ‘ 92.
Ma vi è un grave rimprovero da rivolgere alle Camere penali: l’acquiescenza - anzi la condivisione - dimostrata verso la riforma Cartabia, stranamente voluta sia dalla Anm sia dall’Ucpi. Travolte dall’ostilità verso il ministro Bonafede, che aveva abolito la prescrizione in sede di impugnazione, le Camere penali non si sono accorte che quanto veniva proposto dalla riforma Cartabia era ancora peggio della riforma Bonafede.
La magistratura, con l’eccezione di Magistratura democratica, non ha mai amato il processo accusatorio e l’Anm si è opposta alla riforma dell’art. 111 Cost. Ma le Camere penali no. Avevano il preciso dovere di difendere il rito accusatorio; e invece – lo dico senza cattiveria, ma con grande tristezza – lo hanno abbandonato al suo triste destino, approvando la riforma Cartabia.
Sono rimaste in silenzio, anzi hanno applaudito due gravi attacchi al modello accusatorio: a) lo spostamento dell’intero asse verso l’indagine preliminare, purtroppo convertita in una gigantesca istruzione sommaria, sino a rendere il dibattimento suddito degli accertamenti svolti in quella fase; b) la presenza di quella che impropriamente viene chiamata la nuova regola di giudizio dell’udienza preliminare.
Alludo alla ragionevole previsione di condanna che, per essere formulata da un giudice, è quanto di più lontano si possa immaginare dal modello accusatorio. Non solo si traduce in una grave presunzione di colpevolezza per chi sia rinviato a giudizio, ma induce di fatto diversi giudici a ‘ motivare’ contra legem il decreto che dispone il dibattimento con un minuzioso elenco di tutte le prove raccolte a carico dell’imputato.
Non si è compreso che il processo accusatorio è comunque una grande scelta di civiltà, indipendentemente dall’essere o non essere accompagnato dalla separazione delle carriere. È vero che quel modello favorisce la separazione delle carriere, ma la favorisce come favorisce la giuria e con essa il verdetto immotivato, senza un rapporto di implicazione necessaria. Per converso, la separazione delle carriere ha poco senso in un processo ormai ridotto all’inquisitorio. L’idea che sia di per sé sufficiente a determinare la rinascita del modello accusatorio, è tutta da dimostrare.
Professore ma alla fine lei che voterà al referendum?
L’intensa passione per il modello accusatorio mi indurrebbe a rispondere per il ‘ Sì’. Ma l’occasione è stata gravemente sfigurata. Il processo accusatorio non c’è più, abbandonato da chi avrebbe dovuto difenderlo. La separazione delle carriere, così organizzata, può addirittura accrescere l’autocrazia del corpo dei pm. Rifletterò attentamente.












