Niente può fermare Cosimo Maria Ferri. Il magistrato, ex sottosegretario alla giustizia del governo Letta, finito nella bufera - e poi “assolto” in sede disciplinare - per la riunione all’Hotel Champagne che portò alla radiazione di Luca Palamara, torna infatti ad indossare la toga. Nel 2023, l’ex deputato di Italia viva, esponente storico di Magistratura indipendente, aveva chiesto al Csm di poter tornare in Tribunale, non essendo riuscito a conquistare un posto in Parlamento alle ultime elezioni Politiche.

Un’istanza, la sua, rigettata, data la carica di consigliere al Comune di Carrara, dalla quale si era poi dimesso pur di tornare ad indossare la toga. Ma ad impedire all'ex deputato il rientro in servizio era stata la legge Cartabia: l’articolo 19 della legge 71/ 2022 sull’ordinamento giudiziario stabilisce, infatti, che i magistrati che abbiano ricoperto ruoli politici, al termine del mandato, siano «collocati fuori ruolo, presso il ministero di appartenenza». Una disposizione che si applica alle cariche assunte dopo la data di entrata in vigore della norma e, dunque, dopo il 21 giugno 2022, sette giorni prima della proclamazione di Ferri a consigliere comunale.

Dopo il no del Csm, Ferri è stato in servizio a Via Arenula, per poi essere eletto vice presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria per la consiliatura 2023-2027. Nel frattempo, però, ha continuato a “lottare” per la toga, e dopo un primo ricorso al Tar che gli ha dato torto ha infine ottenuto ragione dal Consiglio di Stato.

Secondo la decisione depositata il 17 novembre da Palazzo Spada, «l’errore commesso dalla sentenza di primo grado» è quello di non considerare che la sua elezione a consigliere, «benché formalmente proclamata dopo l’entrata in vigore della legge-delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario, costituisce l’esito di un procedimento elettorale unitario che ha avuto origine in epoca antecedente, le cui fasi sono strettamente connesse. Tale procedimento - prosegue la sentenza - non può essere inciso da norme sopravvenute idonee ad alterare il regolare svolgimento della competizione, condizionando le scelte dei candidati degli elettori».

L’accettazione della candidatura, aggiungono i giudici amministrativi, è evidentemente orientata «anche dalla valutazione delle conseguenze sulla sfera professionale del soggetto interessato, al quale deve essere riservata la piena libertà di esprimere la propria opzione». Se la riforma Cartabia, intervenuta dopo la candidatura, si ritenesse applicabile al caso di Ferri, dunque, ciò vorrebbe dire che lo stesso «sarebbe costretto a rivedere - ed eventualmente modificare - una scelta liberamente compiuta, nel contesto di una normativa che gli assicurava, al termine del mandato elettorale, il diritto al rientro nell’esercizio delle funzioni». E ciò determinerebbe «un vulnus ingiustificato non solo al suo diritto di elettorato passivo, ma comporterebbe pregiudizi – non ragionevolmente preventivabili - per le liste elettorali collegate alla candidatura, alterando il fisiologico dispiegarsi della competizione elettorale, menomando anche il diritto di elettorato attivo dei cittadini». Nel caso in questione, inoltre, la norma è entrata in vigore dopo il primo turno delle elezioni.

Lo scopo della riforma Cartabia era «assoggettare i magistrati alla regola dell’esclusività della carriera nell’ordine giudiziario rispetto ad incarichi comportanti funzioni e responsabilità di carattere politico, a tutela dell’immagine di imparzialità della funzione giurisdizionale». La regola può però operare solo se in vigore «al momento dell’espressione da parte del magistrato interessato della volontà di concorrere all’assunzione di una carica politico- amministrativa». E nel caso di Ferri, «è pacifico che quest’atto di volontà si colloca in epoca antecedente». Ora toccherà al Csm trovare una nuova sede all’inossidabile Ferri. E chissà che effetto avrà nel dibattito sulla separazione delle carriere.