La difesa di Luca Palamara affonda un nuovo colpo contro il Csm. La questione è sempre quella relativa all’intenzione di Palazzo Bachelet di chiedere un risarcimento danni, in sede civile, all’ex zar delle nomine. Una pratica che il Csm aveva già rinviato - dopo aver appreso delle accuse di calunnia mosse dalla procura generale di Perugia al suo grande accusatore Piero Amara -, ma che ora si arricchisce di un nuovo capitolo. Nel parere del Csm, infatti, viene contestata a Palamara una vicenda particolare: quella relativa alla magistrata Luciana Sangiovanni.

Stando al parere dell’Ufficio studi, Palamara avrebbe interferito in un processo civile, tramite «un colloquio con la collega magistrato presso la sede consiliare». Sangiovanni, evidenziano però i legali di Palamara, Arturo Cancrini e Roberto Rampioni -, sentita come persona informata sui fatti presso a Perugia, a domanda dei pm, aveva escluso «categoricamente che lui (Palamara, ndr) mi abbia pressato per avere notizie sul merito della decisione», «perché in quel caso lo avrei denunciato», precisando di essersi recata al Csm per rappresentare a Palamara dei problemi di organico della sezione. La procura di Perugia, d’altronde, non ha mai iscritto Sangiovanni nel registro degli indagati. La stessa, però, era stata “processata” dal Csm, che l’aveva sollevata dalla presidenza della diciottesima sezione del tribunale di Roma - ritenuta da tutti gli operatori la più efficiente ed organizzata d’Italia -, competente in materia di protezione internazionale, proprio per una chat con Palamara. Chat nella quale veniva fornita un’informazione sullo stato di un procedimento di separazione, informazione tra le altre cose accessibile consultando il portale telematico. Un caso che rappresentava bene i due pesi e le due misure utilizzati nella gestione delle chat del caso Palamara.

Il 19 aprile 2023, però, il Tar ha escluso qualsiasi indebita interferenza affermando che «appare evidente» che Palamara si fosse «limitato a chiedere notizie sullo stato dei riferiti procedimenti, senza che ciò abbia suscitato nessuna forma di “intervento” o di pressione ad opera della ricorrente sui colleghi dell’ufficio che trattavano i relativi fascicoli (come emerso pacificamente dalla stessa audizione dei magistrati coinvolti). Non può dirsi dunque che i fatti contestati all’esponente, pur irrilevanti dal punto di vista disciplinare e del tutto incolpevoli, siano, di per sé e oggettivamente, di pregnanza tale da aver creato il divisato clamor fori ed il pericolo di pregiudizio per la credibilità della funzione». A seguito di tale pronuncia, dunque, Sangiovanni è stata confermata alla presidenza di quella sezione civile, espostissima sul tema dell’immigrazione anche in tempi molto recenti, avendo negato la convalida dei trattenimenti dei migranti in Albania.

Il Csm, dopo la sentenza del Tar, ha poi scelto di non impugnare il provvedimento davanti al Consiglio di Stato, riconoscendo, dunque, “l’innocenza” di Sangiovanni, il cui comportamento non avrebbe avuto rilievo disciplinare. Ma se questa è la situazione, come si giustifica la richiesta di risarcimento (la cifra immaginata dall’Ufficio studi si aggira intorno ai 200mila euro) a Palamara? L’ex magistrato, concludono dunque Cancrini e Rampioni, «è pronto a confermare la linearità, correttezza e trasparenza del proprio operato durante il suo mandato consiliare anche con riferimento alle interlocuzioni intrattenute con la dottoressa Luciana Sangiovanni. Ancora di più alla luce dei richiamati procedimenti giudiziari che hanno ribadito la linearità del comportamento».

L’Ufficio Studi del Csm - che ora dovrà elaborare un nuovo documento - aveva citato i molteplici pareri rilasciati nel corso degli anni, che evidenziano la sussistenza di un danno alla funzionalità dell’Organo, la lesione dell’immagine, «integrata dal grave pregiudizio al prestigio dell’istituzione e alla credibilità della sua complessiva azione di governo autonomo da condotte (...) di asservimento della funzione consiliare e giurisdizionale al perseguimento di interessi privati». Tali condotte, insomma, «in concreto hanno incrinato la fiducia verso l’istituzione consiliare e l’imparzialità e la correttezza dell’azione di governo autonomo».

Palamara, come svelato dal Dubbio, aveva già raggiunto un accordo con la Corte dei Conti, a seguito del quale ha versato 64.500 euro a testa a ministero della Giustizia e Csm per i danni patiti dalla Pubblica amministrazione a causa di questa vicenda (la richiesta della procura generale era di oltre 500mila euro). Al Csm, però, sembra non bastare, da qui l’ipotesi di un doppio binario. Sebbene la sentenza di patteggiamento con la quale la vicenda giudiziaria di Palamara si è chiusa a Perugia non abbia valore di prova piena, il Csm, continua il parere, può comunque usarla - insieme alla sentenza contabile, agli atti d’indagine e alla rassegna stampa - per sostenere in sede civile la richiesta di risarcimento dei danni residui che ritiene causati da Palamara.

Resta però un dato: le nomine dell’epoca Palamara - che sarebbero frutto di accordo tra correnti e non di merito - non sono state annullate. Un’incoerenza evidente, per chi ritiene che l’immagine del Consiglio sia stata danneggiata, aveva commentato al Dubbio l’indipendente Andrea Mirenda. «Un maggior danno da lesione dell’immagine? Sarà agevole eccepirne in sede civile la natura “immaginaria”. Quale credibilità avrà mai, di fronte al giudice adito, un creditore - il Csm - che, facendosi beffa del dovere di cooperazione per attenuare il danno, ha pervicacemente omesso di annullare/ revocare in autotutela le nomine viziate? Che non ha avviato procedimenti disciplinari verso le centinaia di illeciti postulanti (lo ha detto la Cassazione), petulanti e non, grazie a editti “salvifici”? Che ha consentito ai beneficiati palamariani (ma gli altri consiglieri dov’erano? Palamara se li è votati da solo?) di proseguire una carriera luminosa, riconfermandoli bellamente alla scadenza del quadriennio e magari nominandoli per incarichi ancor più prestigiosi? Agevole la parodia della celebre battuta di Marty Feldmann: “Danno? Quale danno?”».