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C’è un dettaglio di due righe, nel programma che il Pd ha proposto alle ultime Politiche, nel settembre 2022. È a pagina 30 e recita così: “Proponiamo di istituire con legge di revisione costituzionale un’Alta Corte competente a giudicare le impugnazioni sugli addebiti disciplinari dei magistrati e sulle nomine contestate”.
A chi è ormai edotto sulla riforma costituzionale della giustizia, l’espressione Alta Corte suona familiare: è un organo previsto anche dalla legge sulla separazione delle carriere scritta da Nordio, appena approvata in via definitiva dal Parlamento e destinata al vaglio del referendum confermativo. Alla riforma del governo Meloni, il Pd, com’è altrettanto noto, si è opposto. Elly Schlein ha già chiesto ai propri elettori di stroncare la legge della destra con un No. Incoerenza? Non proprio. Perché dai vertici del Pd potrebbero avanzare due controdeduzioni.
La prima, che già da sola sembrerebbe risolvere la disputa: non possiamo dirci favorevoli a una modifica costituzionale imperniata sulla separazione delle carriere, e per giunta sul sorteggio dei due eventuali futuri Csm, solo perché, nello stesso ddl, l’Esecutivo ha previsto anche l’istituzione di un organo che pure noi avremmo voluto introdurre.
La seconda scontata obiezione rileverebbe come l’Alta Corte ipotizzata al Nazareno fosse diversa da quella disegnata da Nordio, innanzitutto perché consisteva in un giudice d’appello, e non di primo grado come nella legge del centrodestra. Posizione che, va detto subito, è legittima. Come sarebbe legittimo, per i dem, rivendicare persino una primogenitura, sull’Alta Corte, della quale Luciano Violante è stato il primo “opinion leader” della giustizia a parlare, anni fa, con convinzione.
A voler essere pignoli, si potrebbe dire che tutto sommato “esternalizzare” totalmente la giustizia disciplinare dei magistrati – e cioè, come previsto da Nordio, affidarla fin dal primo grado a un’Alta Corte in cui le toghe resterebbero sì in maggioranza ma sarebbero rappresentate dai soli magistrati di Cassazione – sembra una soluzione più efficace, se l’obiettivo è rendere il meno possibile corporative e autodifensive le decisioni sulle condotte dei giudici. Ma sono dettagli, appunto.
Il senso ultimo del paradosso attestato da questa storia è che il Pd resta pur sempre schierato anche contro una riforma che aveva promesso agli elettori in caso di vittoria. Si tratta insomma di un paradosso più generale, che evoca la rinuncia del partito di Elly Schlein alla storica vocazione riformista della sinistra italiana. È il nodo di cui si è occupato ieri, su queste pagine, Vittorio Minervini.
Nel caso delle carriere separate, si coglie l’evidente ritirata del Partito democratico in un ostruzionismo di matrice antiberlusconiana. Il che appunto evoca una prospettiva rivolta più al passato che al progresso del sistema. E va detto che è tutto il fronte del No alla separazione delle carriere, inclusa l’opposizione dell’Anm, a suggerire una nostalgia del conflitto fra politica e toghe.
Che il centrosinistra potesse concedere anche solo qualche spiraglio, sulla giustizia, era comunque molto difficile, d’accordo. Però poi tutto ha una propria sostanza. Resta l’idea di una ritrosia del Pd alle riforme. Anche alle riforme che ha promesso in vista delle ultime Politiche. Al di là dei dettagli. E delle incoerenze che certo, pure sul fronte governativo, riempirebbero un elenco lungo quanto metà del programma.


