Non è incostituzionale la riforma del reato di traffico di influenze: è quanto stabilito ieri dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 185 (redattore Francesco Viganò) che ha ritenuto non fondata una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Roma. La Consulta salva così per la seconda volta la cosiddetta “legge Nordio” adottata lo scorso anno dopo che, sempre a maggio di quest’anno, aveva ritenuto legittima l’abrogazione del reato di abuso di ufficio.

Entrambe le modifiche del codice di rito sono presenti nella legge 114 del 2024, una delle più importanti riforme del Guardasigilli da quando è a via Arenula. Secondo i giudici di piazza del Quirinale, la riformulazione più restrittiva del traffico di influenze illecite «pur limitando significativamente la tutela penale del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione» «non viola gli obblighi internazionali discendenti dalla Convenzione di Strasburgo sulla corruzione».

IL CASO

Il giudice dell’udienza preliminare doveva giudicare della responsabilità penale di alcuni imprenditori, accusati di traffico di influenze per avere versato più di undici milioni di euro a un mediatore, il quale si sarebbe impegnato ad attivarsi presso il Commissario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri, per assegnare a una serie di imprese cinesi l’appalto relativo alla fornitura di 800 milioni di mascherine. Poiché la nuova formulazione del reato di traffico di influenze illecite, risultante dalla riforma del 2024, non si accontenta più che il denaro sia versato in vista di una generica “mediazione illecita”, ma richiede che tale mediazione abbia a oggetto la commissione di un reato da parte di un pubblico ufficiale, gli imputati avrebbero dovuto essere assolti.

La stessa pubblica accusa aveva, infatti, contestato al Commissario, nel medesimo procedimento, il reato di abuso di ufficio, che per effetto della medesima riforma del 2024 non costituisce più reato. Il Tribunale di Roma, tuttavia, dubitava della compatibilità della riforma con l’obbligo, discendente dalla Convenzione di Strasburgo, di incriminare il traffico di influenze. L’articolo 12 della Convenzione descrive infatti il reato come il fatto di chi offre, promette o versa denaro a un mediatore affinché eserciti una «improper influence» su un pubblico ufficiale, senza richiedere necessariamente che questa influenza debba essere finalizzata a ottenere la commissione di un reato da parte dello stesso pubblico ufficiale.

LA DECISIONE DELLA CONSULTA

Se da un lato la Corte ha anzitutto confermato, in linea con quanto già stabilito nella sentenza numero 95 del 2025 sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio, «che la violazione degli obblighi internazionali di criminalizzazione di una condotta può dar luogo a una violazione dell’articolo 117 della Costituzione, che impone al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali» e che «dall’articolo 12 della Convenzione di Strasburgo discende, per il legislatore, un obbligo di prevedere nell’ordinamento penale italiano il reato di traffico di influenze illecite», dall’altro lato, tuttavia, ha ritenuto che «il concetto di “influenza impropria” utilizzato dalla Convenzione abbia contorni vaghi, che necessariamente debbono essere precisati dal legislatore nazionale».

Ciò anche in relazione «alla persistente mancanza di una disciplina del lobbying, che consenta di tracciare una chiara linea distintiva “tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali, finalizzate a rappresentare e sostenere interessi di singoli individui e imprese, ovvero interessi diffusi e collettivi, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dello stesso legislatore”». Pertanto, la scelta del legislatore italiano di fornire una interpretazione restrittiva di «mediazione illecita» si colloca secondo la Corte «all’interno dello spazio di discrezionalità che la stessa Convenzione di Strasburgo lascia aperto al legislatore nazionale, chiamato a concretizzare le clausole generali contenute nello strumento internazionale in armonia con i principi del proprio ordinamento, tra cui quello – di rango costituzionale – di precisione della legge penale».

INVITO AL PARLAMENTO

Nell’ambito del costante dialogo della Corte con il legislatore, i giudizi costituzionali al termine della decisione hanno rivolto quello che tecnicamente viene definito un «auspicio» alle Camere per introdurre una organica disciplina delle attività di lobbying, da tempo e da più parti auspicata. «Tale disciplina» – ha sottolineato la Corte – «appare necessaria, al fine di definire con chiarezza le condotte di illecita influenza sui pubblici ufficiali e di prevedere sanzioni per l’inosservanza delle relative prescrizioni; garantendo così trasparenza alle prassi di interlocuzione con le istituzioni, onde assicurare ai consociati la possibilità di un più accurato controllo sull’operato della pubblica amministrazione e dei propri rappresentanti eletti».

L’adozione di una simile disciplina potrebbe, d’altra parte, «consentire al legislatore di rimeditare le attuali scelte in materia di disciplina penale del traffico di influenze illecite, sì da assicurare una più incisiva tutela degli stessi interessi collettivi – essi pure di rango costituzionale – all’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione contro condotte di indubbia gravità, che restano oggi del tutto sprovviste di sanzione», conclude il comunicato della Corte Costituzionale.