C’è un filo rosso che, negli ultimi anni, attraversa molte decisioni della Cassazione in materia di indagini tecnologiche: la crescente consapevolezza che sequestrare uno smartphone o un computer non equivale a mettere le mani su un semplice oggetto, ma su un frammento di vita privata. La sentenza n. 38331 della Sesta sezione ribadisce questo punto con particolare chiarezza, richiamando il principio di proporzionalità come cardine della legittimità di ogni ingerenza nei diritti fondamentali.

In un’epoca in cui le investigazioni digitali sono sempre più estese e automatiche, la Corte fissa un limite: l’attività di ricerca della prova non può oltrepassare ciò che è davvero necessario. È un richiamo che riguarda non solo le procure, ma anche il legislatore, spesso incline a introdurre strumenti sempre più penetranti senza misurarne l’impatto sulle garanzie individuali.

Secondo la Cassazione, il sequestro di un dispositivo elettronico è una misura ad alta intensità intrusiva perché permette di accedere a un patrimonio di informazioni che va ben oltre il fatto- reato, toccando aspetti della vita dell’indagato e, a volte, anche di persone del tutto estranee che nulla hanno a che fare con l’indagine. Per questo, nella motivazione del decreto di sequestro il pubblico ministero deve chiarire perché ritenga indispensabile acquisire l’intero contenuto del dispositivo oppure quali dati stia cercando con precisione.

Deve anche indicare i criteri di selezione del materiale informatico e giustificare eventuali ampliamenti del periodo temporale oggetto d’interesse. Inoltre è tenuto a definire tempi certi entro cui effettuare la selezione e restituire ciò che non è rilevante. Non sono aspetti burocratici: sono presidi a tutela del perimetro dell’indagine e dei diritti di chi la subisce.

Nel caso esaminato, il provvedimento era stato motivato con riferimenti generici all’impossibilità di utilizzare chiavi di ricerca e alla “peculiarità” dell’indagine. Per la Corte si tratta di formule vuote, che potrebbero sostenere qualsiasi sequestro e che quindi non bastano a superare il vaglio di legittimità. La Cassazione chiede invece motivazioni puntuali, verificabili, non mere dichiarazioni di principio. La sentenza arriva in un contesto in cui gli strumenti investigativi si stanno trasformando rapidamente: l’uso di algoritmi, sistemi di ricostruzione dei movimenti e analisi automatizzate sta diventando la regola più che l’eccezione. È proprio in questo scenario che il rischio di una profilazione giudiziaria estesa, non limitata allo stretto necessario, si fa concreto. E la Sesta sezione, con un monito che vale oltre il caso specifico, ricorda che l’indagine digitale è legittima solo se rimane circoscritta al suo scopo. Quando diventa una perlustrazione generalizzata della vita privata, la giustizia oltrepassa il limite che la Costituzione le impone.