Si respira aria di tensione negli uffici giudiziari di Milano. Con gli avvocati, da un lato, che chiedono di poter discutere con il procuratore Marcello Viola dei rischi corsi dal giusto processo e dalla funzione difensiva e alcuni magistrati, dall’altro, che chiedono ai difensori di non disturbare, con appositi cartelli esposti sulle porte dei loro. Un clima esacerbato dal caso Alessia Pifferi, la scintilla che ha innescato la miccia che ora rischia di far deflagrare il Palazzo di Giustizia.

Altre due psicologhe indagate

I fronti aperti sono due. Da una parte il pm Francesco De Tommasi, che rappresenta la pubblica accusa nel processo contro la madre accusata di aver lasciato morire di stenti la piccola Diana, la figlia di soli 18 mesi, ha aggiunto altri due nomi al fascicolo parallelo. Sono quattro, ora, gli psicologi indagati, tutti coinvolti nella somministrazione del test di Wais a Pifferi, che sarebbe risultata in possesso di un Qi pari a 40, quello di una bambina. Assieme a loro, è indagata anche Alessia Pontenani, difensore di Pifferi. Una scelta che ha spinto la pm Rosaria Stagnaro, inizialmente titolare del fascicolo sulla morte della piccola Diana, a lasciare il processo: il collega De Tommasi, infatti, non l’aveva informata dalla sua indagine. Oltre alle due psicologhe coinvolte inizialmente - che verranno sentite il 4 aprile e che, stando all’accusa, avrebbero inserito i risultati prima della somministrazione del test -, lunedì hanno ricevuto l’avviso di garanzia una psicologa che alterna il lavoro all’Asst Santi Paolo e Carlo alle ore di servizio nella casa circondariale, che avrebbe partecipato alla somministrazione del test di Wais senza firmare la relazione, e un’altra professionista esterna al carcere, che avrebbe ricevuto, corretto e modificato la relazione sullo stato di salute della donna. Insomma, una vera e propria «rete criminale», come sostenuto in aula dal pm, secondo cui le psicologhe avrebbero «manipolato» Pifferi in carcere per farle ottenere «l’agognata perizia psichiatrica» che avrebbe dovuto dimostrare la sua incapacità di intendere e di volere, smentita dal perito del Tribunale in aula.

La protesta dell’avvocatura

Ma l’atteggiamento di De Tommasi, contestato dall’avvocatura milanese con uno sciopero indetto dalla Camera penale e messo in atto il 4 marzo, mentre era in corso l’udienza del caso Pifferi, ha spinto i penalisti a scrivere a Viola. Col quale avrebbero voluto affrontare le proprie preoccupazioni, al fine «di tutelare il corretto equilibrio tra le parti, i principi del giusto processo e, in fin dei conti, il corretto esercizio dell’attività giurisdizionale». Con una lettera accorata, il consiglio direttivo della Camera penale guidata da Valentina Alberta rilancia la propria riflessione «sulla sacralità del processo come luogo di accertamento dei fatti, sulla delicatezza dei rapporti tra Procura e stampa, sulle conseguenze che azioni come quelle verificatesi hanno comportato sulle attività del personale sanitario che opera all’interno degli istituti penitenziari, in un momento peraltro di grave sovraffollamento carcerario, nonché sul tema relativo alle regole che governano le iscrizioni delle notizie di reato e le modalità attraverso cui avvengono le assegnazioni dei fascicoli».

Alla giornata di protesta del 4 marzo erano presenti diversi magistrati milanesi, che hanno dunque risposto alla richiesta di un confronto. Resosi ormai necessario. E ancora più necessario, per l’avvocatura, è che l’interlocutore principale sia il procuratore della Repubblica, che al momento non ha preso iniziative su quanto accaduto nel caso Pifferi, «nemmeno dopo quella che è stata definita una “requisitoria anticipata” posta in essere nell’udienza celebratasi lo stesso giorno dell’assemblea». Durante l’udienza del 4 marzo, infatti, De Tommasi ha aperto una parentesi sull’indagine parallela, ancora agli inizi, anticipando una discussione senza le parti, tanto da spingere uno dei legali delle psicologhe indagate, Mirko Mazzali, a “minacciare” di abbandonare la difesa, di fatto «inutile» in assenza di contraddittorio.

I temi messi sul piatto dai penalisti

I temi che i penalisti vorrebbero affrontare con Viola riguardano le scelte organizzative, le modalità e le tempistiche delle iscrizioni delle notizie di reato, i criteri di assegnazione dei fascicoli, i controlli esercitati dal procuratore e dai suoi aggiunti. Temi che «hanno ricadute dirette sui diritti degli indagati, sulle prerogative difensive e sull’imparzialità dell’organo che rappresenta l’accusa». Per quanto riguarda le iscrizioni delle notizie di reato, affermano i penalisti, «auspichiamo che vi siano direttive chiare e uniformi, che limitino la discrezionalità in fase d’iscrizione e che siano ispirate alla garanzia per gli indagati (e per i soggetti indagabili)». Direttive chiare «che consentano, anche a posteriori, un controllo circa il rispetto delle regole che debbono, come detto, garantire i principi oggi formalizzati anche nella legge processuale». A preoccupare sono i cosiddetti fascicoli “contenitore”, una situazione «patologica» che consente di convogliare, in un unico fascicolo, «notizie di reato diverse a carico di una pluralità di soggetti e in cui sono operate iscrizioni anche a distanza di anni dall’iscrizione originaria, che di fatto comportano lo svolgimento d’indagini prolungate nel tempo», spesso per reati privi di alcun legame e con mezzi di ricerca della prova «consentiti solo per alcuni dei reati iscritti», come intercettazioni e trojan. Fascicoli in mano ad un unico pm - o ad un unico pool - con deleghe a un’unica polizia giudiziaria e un solo gip. Tale prassi, secondo la Camera penale, è frutto «di forzature che rischiano di attribuire una sorta di competenza funzionale extra ordinem al singolo magistrato (o a quel pool), con tutti i pericoli che ne possono derivare in ordine alla concentrazione di “potere” nonché alla perdita di obiettività, che pure deve caratterizzare l’attività della “parte pubblica”». Discorso estendibile anche agli “stralci”, che possono rappresentare «un altro strumento attraverso cui garantire la concentrazione di un “filone” d’indagine in capo al medesimo sostituto». Il rischio è quello di creare «eterni indagabili» e «riserve di caccia», punti sui quali i penalisti vogliono vederci chiaro.

Altro tema è quello dei possibili “conflitti d’interesse” del singolo pm. Partendo dal caso Pifferi, il rischio è di creare un campo di battaglia, «in una situazione di forze impari, anche sul piano delle garanzie ordinamentali». Il problema, in termini generali, riguarda il divieto di auto-assegnazione, rispetto al quale «dovrebbe essere introdotta una regola che eviti il rischio di potenziali conflitti e che ponga il processo al riparo da possibili interferenze derivanti dalla titolarità d’indagini parallele». Ma al netto del caso Pifferi, la sensazione, denunciano i penalisti, è che si sia ormai creata una frattura tra avvocati e uffici di procura. «Difficoltà, sintomatiche di un disinteresse – se non un malcelato fastidio – nei confronti del ruolo del difensore», che trova riscontro anche nello scarso utilizzo dell’agenda elettronica per gli appuntamenti. «Siamo infatti convinti che il confronto già durante le indagini preliminari con la difesa sia sempre utile e che possa spesso condurre alla definizione di fascicoli con maggiore celerità e completezza, nell’interesse di tutte le parti processuali e dell’esercizio della giurisdizione e riteniamo inaccettabile che vi siano sostituti che ci fanno sentire ospiti sgraditi nei corridoi della Procura – ne sono prova alcuni cartelli affissi fuori dalle stanze che vietano di “disturbare” – mostrando così di non rispettare e non comprendere il ruolo del difensore». Ma le difficoltà sono legate anche al sistema di caricamento degli atti sul Tiap: «Sono numerosi i casi in cui il contenuto del fascicolo “informatizzato” non corrisponde esattamente a quello cartaceo, con gravissime ripercussioni sulla serenità dell’esercizio del diritto di difesa», denuncia la Camera penale. Mentre permangono criticità «in merito alle modalità di accettazione dei mandati difensivi a mezzo portale e ai certificati ex art. 335 c.p.p., che spesso risultano “nulli”». La carne al fuoco è tanta. Ora tocca al procuratore Viola accettare l’invito al confronto.