«Vogliono farmi abbandonare la difesa? Non ci penso proprio, ma per che cosa? Io non farò alcun passo indietro, salvo che il giudice non stabilisca la mia incompatibilità. Ma questo lo vedremo il 4 marzo». La voce di Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, in carcere per aver lasciato morire in casa la figlia Diana di 18 mesi, è combattiva. Anche se da poche ore ha appreso, rigorosamente a mezzo stampa, di essere indagata insieme a due psicologhe del carcere di San Vittore, P.G. e L.M., per falso ideologico e favoreggiamento.

Il tempismo sembra quasi da film. Non solo perché la notizia arriva nel giorno dedicato agli avvocati in pericolo, ma anche perché deflagra all’indomani dell'ultimo incontro tra Pifferi e il perito incaricato dal Tribunale di Milano di accertare le sue condizioni mentali. La notizia diventa pubblica per via del decreto di perquisizione e sequestro a carico delle due psicologhe, firmato da uno dei pm che in aula sostengono l’accusa contro Pifferi, Francesco De Tommasi. Che già in Tribunale aveva urlato la propria indignazione, nella convinzione di essere stato preso in giro. Tra le accuse mosse alle due psicologhe c’è quella di aver attestato il falso nella relazione in cui viene certificato che il Qi di Pifferi è pari a 40. Un “deficit grave” che sarebbe stato diagnosticato, secondo il pm, attraverso un test «non fruibile né utilizzabile a fini diagnostici e valutativi».

Per attestare le condizioni della donna, il giudice Ilio Mannucci Pacini ha disposto una perizia (chiusa, appunto, martedì), la stessa alla quale il pm si era opposto proprio puntando il dito contro le psicologhe del carcere. «Pifferi entra in carcere a San Vittore in una condizione nella quale non sussistono pregressi psichiatrici - aveva sottolineato in aula -. È una persona che sta benissimo, è lucida». Ma a seguito di un test “Wais” somministrato in carcere dalle psicologhe la situazione cambia: Pifferi diventa una persona che difficilmente potrebbe essere giudicata presente a se stessa. Per quelle verifiche, aveva tuonato l’accusa, «non è stata richiesta alcuna autorizzazione» e tutto «fuoriesce da quelle che sono le competenze di una casa di reclusione». Il test - secondo l’accusa - non corrisponde «alle metodiche di somministrazione e documentazione previste», dal momento che l’imputata «non era un soggetto a rischio di atti anticonservativi e si presentava lucida, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali». Da qui la convinzione che «ci sia stata una voluta o non voluta manipolazione nella testa di Alessia Pifferi».

Secondo De Tommasi, l’avvocata e le psicologhe, «in concorso morale e materiale tra loro», avrebbero attestato «falsamente» che la donna sia dotata di «scarsa comprensione delle relazioni di causa ed effetto e delle conseguenze delle proprie azioni». E quella offerta a Pifferi da parte delle psicologhe non sarebbe stata, dunque, assistenza psicologica, ma un’attività qualificabile come «consulenza difensiva», con lo scopo di creare, «mediante false attestazioni circa lo stato mentale della detenuta (...) le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico e fornire così alla Pifferi una base documentale» per ottenere la perizia psichiatrica poi ottenuta.

La perizia verrà comunque redatta prescindendo dai due pareri discordanti di accusa e psicologhe penitenziarie. Ree anche di aver discusso con Pifferi della sua vicenda processuale e di aver condotto «un vero e proprio interrogatorio» sui test somministrati nell’ambito della perizia disposta dal tribunale, conclusosi con una «tranquilla chiacchierata tra amiche» e «con uno scambio di baci», «risate e temi del tutto avulsi da qualsivoglia problematica di natura mentale». Tra gli elementi sospetti, per la procura, anche la telefonata tra P. G. e Pontenani, nella quale le due donne, secondo gli inquirenti, «si complimentano di avercela fatta». Il pm ha disposto accertamenti anche su altri casi seguiti dalle due psicologhe. Perché secondo il pm, P. G. sarebbe stata mossa da un «atteggiamento ideologico», pulsioni «antisociali» e di lotta ad un sistema dal suo interno, «goccia a goccia, un caso alla volta». Sistema di cui le detenute sarebbero «vittime» da salvare.

Parole che hanno lasciato basito il legale delle donne, Mirko Mazzali. «Sorge il fondato sospetto che la perquisizione nasconda finalità estranee alla condotta commessa dalla mia assistita e voglia indagare sulla sua attività lavorativa complessiva, accusandola più per il merito dei pareri espressi che per il metodo con il quale si è pervenuti a tali pareri», ha commentato. Il provvedimento, secondo il legale, sarebbe «finalizzato alla ricerca di documenti in possesso dell'istituto penitenziario e quindi facilmente rintracciabili, che pone sotto sequestro cellulari e computer per cercare fantomatici rapporti con una detenuta, nonché documentazione concernente altre detenute non oggetto dei capi di imputazione».
Le domande sono tante. Perché accusare l’avvocata di favoreggiamento? «Quale sarebbe stato il fine - ci dice Pontenani -, ottenere una pena più bassa? Io faccio l’avvocato. Loro fanno le psicologhe. Non abbiamo alcun tornaconto». Ma l’altra domanda è perché il pm non abbia deciso di chiedere la trasmissione degli atti in aula, come si chiedono Antonino La Lumia, presidente del Coa di Milano, e Valentina Alberta, presidente della Camera penale meneghina, in un documento dal titolo “l’avvocato in pericolo siamo tutti noi”. Partendo, appunto, dall’avviso di garanzia “a mezzo stampa”, un fatto «grave (rectius: inaccettabile)» e contrario al «principio di presunzione di innocenza, soprattutto in termini di lesione reputazionale indelebile», si legge nella nota. Che si interroga anche sulla ragione «del mancato rispetto delle scansioni fisiologiche del processo, che - sul modello previsto per i testimoni dall’art. 207 c.p.p. - dovrebbero semmai prevedere una richiesta di trasmissione atti fatta dal pm a conclusione del processo stesso. Non si comprende, in verità, la necessità di ipotizzare un reato di falso in capo al difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova».

Pur senza entrare nel merito, gli avvocati stigmatizzano i metodi della procura. «È difficile, mettendosi nei panni della collega, non avere la sensazione di un implicito invito a fare un passo indietro. E non vogliamo consentire che - proprio nella giornata internazionale per l’avvocato minacciato - una situazione del genere passi inosservata. La funzione difensiva non deve essere mai in pericolo».

C’è da chiedersi, poi, chi e come definisca il limite dell’apporto psicologico in carcere. E a parlarne, col Dubbio, è lo psicoterapeuta Claudio Foti. Che si chiede: «Come si fa a criminalizzare la scelta di uno psicologo del carcere di parlare dei procedimenti con un detenuto? È un impegno dialogico ineludibile, dal momento che le energie mentali dei detenuti, per lo meno al 70- 90%, si rivolgono inevitabilmente alle preoccupazioni concernenti la difesa penale - sottolinea -. Se non lo facesse, lo psicologo verrebbe meno all’empatia e perderebbe un aggancio fondamentale per riuscire ad affrontare altre tematiche. Come si può stabilire, dal di fuori, che un test è stato usato inappropriatamente? Gli psicologi del carcere fanno del loro meglio per aiutare i detenuti a sopravvivere, anche nel procedimento penale. È un crimine? Preferiamo lo psicologo forcaiolo che dica: “Cara signora, hai commesso un crimine imperdonabile, dovrai patire nel fuoco della “Geenna” carceraria”?».